Codice della Strada 2017: le novità per gli automobilisti
Anche nel 2017 il Codice della Strada presenta qualche novità che gli automobilisti, ma non soltanto loro, farebbero bene a conoscere per non incorrere in eventuali sanzioni. I cambiamenti più importanti riguardano l’uso dei seggiolini delle auto destinati al trasporto dei bambini, l’inasprimento delle multe per chi guida utilizzando lo smartphone e l’aggiornamento delle sanzioni amministrative.
- Seggiolini per bambini
Per quanto concerne i seggiolini, le nuove norme integrano quanto già stabilito dall’articolo 172 del Codice della Strada, al fine di contrastare l’allarmante crescita del numero di bambini vittime di incidenti stradali. Da gennaio 2017 i bambini al di sotto dei 125 centimetri di altezza devono viaggiare in auto su nuovi seggiolini omologati dotati di un apposito rialzo con schienale che consenta una migliore disposizione della cintura sulle spalle e sul torace. I rialzi senza schienale (in pratica i vecchi modelli, che continueranno a rimanere in commercio per un periodo limitato) sono consentiti solo ai bambini al di sopra dei 125 centimetri di altezza.
Successivamente, a partire dall’estate 2017, entrerà in vigore un’altra modifica sui seggiolini: non sarà più consentita la vendita di modelli senza schienale e, inoltre, non sarà più obbligatorio il sistema ISOFIX destinato ai bambini da 100 a 150 cm di altezza, che dunque potranno viaggiare con le modalità di installazione preferite dai genitori.
Sono previste multe severe per chiunque non rispetti l’obbligo di dotarsi di seggiolini d’auto omologati: in particolare, chi non fa uso dei dispositivi di ritenuta, cioè delle cinture di sicurezza e dei sistemi di ritenuta per bambini, è soggetto a una sanzione amministrativa da 80 euro a 323 euro.
- Guida con smartphone
Tra le importanti novità Codice della Strada 2017 c’è anche l’introduzione di pene più severe in caso di uso dello smartphone, o di altri dispositivi mobili, mentre si guida. Ora è previsto infatti il ritiro della patente da 15 giorni a 2 mesi per chi viene pizzicato a guidare con il telefono cellulare, più una multa da 161 a 646 euro e la perdita di 5 punti sulla patente. E non è finita qui: in caso di sinistro, per verificare se l’incidente sia stato causato dall’utilizzo improprio dello smartphone, la polizia stradale può disporre il sequestro dell’apparecchio.
Ricordiamo che il Codice della Strada consente di effettuare e ricevere chiamate mentre si guida soltanto tramite il viva voce oppure indossando gli auricolari, purché il conducente conservi adeguate capacità uditive a entrambe le orecchie.
- Aggiornamento sanzioni amministrative
Come ogni anno il Ministero della Giustizia ha predisposto il decreto che, come prevede l’articolo 195 del Codice della Strada, dispone l’aggiornamento dei relativi importi delle sanzioni amministrative pecuniarie. Il decreto riporta, in modo completo in una tabella allegata allo stesso, gli importi edittali minimi e massimi che sono stati modificati tenendo conto degli indici di variazione dei prezzi al consumo verificatisi dal 1° dicembre 2015 al 30 novembre 2016, così come risultato dai dati Istat. La tabella è ovviamente disponibile sul sito del Ministero.
- Altre novità del Codice della Strada 2017
Nel corso dell’anno potrebbero essere introdotte ulteriori novità che riguardano il Codice della Strada: sono per esempio in discussione l’introduzione della scatola nera obbligatoria su tutte le vetture, dello specchietto che elimina l’angolo cieco e di un sistema anti-sonno sulle auto che, attraverso un avviso luminoso, un avviso acustico e una vibrazione sul volante, desti l’attenzione del guidatore. Un’altra novità potrebbe invece riguardare i ciclisti, per i quali si sta valutando l’obbligo di controllare il funzionamento dei dispositivi catadiottrici e di tenere sempre le luci accese quando circolano nelle ore serali e notturne.
Insidia stradale in prossimità abitazione – ordinaria diligenza
La Corte di Cassazione , con la sentenza n. 12174 del 14 giugno 2016, ha precisato che: “ la concreta possibilità, per l’utente danneggiato, di percepire o prevedere l’insidia stradale, attraverso l’ordinaria diligenza, vale ad escludere sia la configurabilità dell’anomalia stradale che la conseguente responsabilità del Comune per difetto di manutenzione della strada pubblica.
La circostanza che il danneggiato risieda nelle vicinanze del luogo ove è avvenuto il sinistro non pone una presunzione di conoscenza a suo carico, ma assurge ad ulteriore elemento, che deve essere considerato dal giudice di merito nell’operazione di bilanciamento tra prevenzione e cautela, sotteso alla responsabilità per custodia.
Il pronunciamento si pone in linea col consolidato orientamento di legittimità (Cassazione, sentenza n. 15375 del 2011), in conformità del quale la concreta possibilità, per l’utente danneggiato, di percepire o prevedere l’insidia, con l’ordinaria diligenza, vale ad escludere sia la configurabilità della stessa che la conseguente responsabilità della P. A. per difetto di manutenzione della strada pubblica.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Danno biologico – metodo liquidazione
La liquidazione degli indennizzi operata dall’INAIL non si effettua secondo i criteri ordinari, ma in base ai parametri, alle tabelle e alle regole proprie stabilite dal sistema assicurativo e per conseguire i fini suoi propri in conformità all’art. 38 Cost. .
La determinazione del danno biologico ai fini della tutela dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non si effettua con i medesimi criteri valevoli in sede civilistica atteso che in sede previdenziale vanno osservate obbligatoriamente le tabelle delle invalidità (“Tabella delle menomazioni”; “Tabella indennizzo danno biologico”; “Tabella dei coefficienti”) di cui al D.M. 12.7.2000, e successivi aggiornamenti, ai sensi dell’art.13 d.lgs. n. 38/2000; mentre ai fini civilistici si utilizzano baremes facoltativi, secondo tabelle elaborate dalla comunità scientifica. (cfr Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza 26/04/2016 n° 8243).
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Alcoltest – curva di Widmark
La Corte di Cassazione, Quarta Sezione Penale, con sentenza n. 19176 del 9 maggio 2016, ha così precisato: “Non è sufficiente la c.d. curva di Widmark, secondo cui la concentrazione dell’alcol nel sangue raggiunge il picco a 60 minuti dal momento dell’assunzione, per smentire i risultati dell’alcoltest avvenuto a due ore dal fatto”.
Infatti, con la c.d. curva di Widmark, si stabilisce che la concentrazione di alcol, in andamento ascendente tra i 20 e i 60 minuti dall’assunzione, assume un andamento decrescente dopo aver raggiunto il picco massimo di assorbimento in tale intervallo di tempo.
Ne sovviene che i dati, attestanti l’andamento decrescente del tasso alcolemico presenti nell’organismo del conducente, possano corroborare uno stato di ebbrezza alcolica, al momento della guida, più grave di quella effettivamente accertata con l’etilometro.
L’orientamento dominante in giurisprudenza afferma che lo stato di ebbrezza alcolica può essere accertato con qualsiasi mezzo, anche su base sintomatica, indipendentemente dalla verifica strumentale, dovendosi ravvisare l’ipotesi più lieve di quelle contemplate dall’art. 186 del codice della strada, (priva di rilevanza penale) quando, pur risultando accertato il superamento della soglia minima, non sia possibile affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che la condotta del conducente rientri nell’ambito di una delle tre ipotesi (come ribadito dalla Corte di Cassazione penale, Sezione IV, con la sentenza n. 1773 del 17 gennaio 2013, in conformità della sentenza della Corte di Cassazione penale, Sezione IV, n. 6889 del 21 febbraio 2012, n. 6889).
Ogni diversa interpretazione dei giudici di merito deve essere motivato doverosamente nel preciso riferimento ad una sintomatologia tale da sorreggere, con ragionevole certezza, l’affermazione secondo la quale il conducente, a dispetto della misurazione meccanica, al momento del fatto presentasse nell’organismo alcol superiore.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Alcool test – volume insufficiente
La Cassazione, Sezione Penale IV, con la sentenza n. 23520 del 7 giugno 2016, ha precisato che: “se gli scontrini rilasciati dall’etilometro indicano la dicitura “volume insufficiente”, sebbene indichino un tasso di alcool nel sangue superiore alla norma, il giudice deve sempre motivare perché l’anomalia non abbia inficiato l’esito del test”.
In tema di volume insufficiente durante la prova dell’etilometro, la giurisprudenza ha tenuto, nel tempo, un orientamento altalenante.
Ed infatti, secondo una prima impostazione, l’indicazione, su entrambi i tagliandi rilasciati dall’etilometro, della dicitura volume insufficiente, contrasterebbe insanabilmente con la contestuale indicazione, pure presente sugli scontrini, relativa al valore relativo al tasso alcolemico registrato, evenienza quest’ultima che presuppone l’effettuazione di una corretta misurazione del campione di aria alveolare espirato (come da Cassazione Penale Sezione IV, con la sentenza n. 35303 del 21 agosto 2013).
L’orientamento, a questo difforme, afferma che “premessa la volontarietà della condotta necessaria ai fini del controllo, la mancata adeguata espirazione, cui consegue emissione di scontrino indicante la dicitura “volume insufficiente”, in assenza di fattori condizionanti l’emissione di aria (quali patologie atte a incidere sulle capacità respiratorie del soggetto), non può essere ritenuta tale da rendere l’esito dell’esame di alcoltest inattendibile (come precisato dalla Cassazione Penale, Sezione IV, con la sentenza n. 1878 del 17 gennaio 2014).
A tal fine, come ben rileva la Corte di Cassazione, il giudice di merito è tenuto a rendere adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali l’insufficienza del volume abbia o non abbia inficiato il risultato del test espresso dai parametri numerici, poiché tale non potendo essere la tautologica affermazione per la quale “la formulazione del risultato numerico dimostrerebbe il corretto funzionamento dell’apparecchio”.
Tutto ciò, in quanto i sintomi dello stato di ebbrezza possono avere rilievo solo ove questi siano in grado di attestare, oltre ogni ragionevole dubbio, il superamento della soglia che rende il comportamento penalmente rilevante.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Ospedale – colpa di medici di diversa struttura
La Corte di Cassazione Civile, sez. III, con la sentenza n. 7768 del 20 aprile 2016 ha riaffermato che: “nel ricovero ospedaliero, il paziente conclude un contratto di spedalità con il soggetto che di tale struttura ha la diretta gestione, le cui scelte organizzative sono estranee al primo, per cui, nel caso, si verte in un tipico caso di responsabilità oggettiva”.
Ed infatti, l’accettazione del paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, laddove la responsabilità del medico dipendente dell’ente ospedaliero verso il paziente è fondata sul contatto sociale instaurantesi tra quest’ultimo ed il medico.
Rapporto che si modella come contratto d’opera professionale, in base al quale il medico è tenuto all’esercizio della propria attività nell’ambito dell’ente con il quale il paziente ha stipulato il contratto, ad essa ricollegando obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi emersi o esposti a pericolo in occasione del detto “contatto”, e in ragione della prestazione medica conseguentemente da eseguirsi.
Nel caso, quindi, è d’uopo affermare che, allorquando un paziente viene ricoverato in una struttura sanitaria gestita, in virtù di apposita convenzione, da un soggetto diverso dal proprietario, dei danni causati dai medici ivi operanti è tenuto a rispondere non già quest’ultimo bensì il soggetto che di tale struttura ha la diretta gestione, in quanto è col primo e non col secondo che il paziente stipula, per il solo fatto dell’accettazione nella struttura, il contratto atipico di spedalità, in quanto la diretta gestione della struttura sanitaria costituisce l’elemento idoneo ad individuare il soggetto titolare del rapporto instaurato con il paziente, ed a fondare la correlativa responsabilità.
In tal caso, infatti, il paziente è estraneo alle scelte di carattere organizzativo e burocratico, adottate dall’amministrazione sanitaria nel suo complesso, ed è inconsapevole di tali decisioni, non potendo pertanto risultare penalizzato per effetto di scelte operate dall’amministrazione ospedaliera.
La responsabilità contrattuale dell’ospedale non rimane pertanto esclusa in ragione della insussistenza di un rapporto contrattuale che leghi il medico alla struttura sanitaria, poichè, in base alla regola di cui all’art. 1228 c.c. il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, ancorché non siano alle sue dipendenze.
Nel caso si discerne di responsabilità oggettiva che riposa sul principio cuius commoda eius et incommoda, o, più precisamente, dell’appropriazione o avvalimento dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Assicurazione – validità ai fini risarcitori
Per quanto alla validità o meno, ai fini risarcitori, della limitazione all’abilitazione alla guida la Corte di Cassazione, Sezione VI civile, con la sentenza n. 6403 del 01 aprile 2016, conformemente a quanto già in precedenza stabilito ( vedasi Cassazione, sentenza n. 20190 del 25 settembre 2014 nonché Cassazione, sentenza n. 12728 del 25 maggio 2010) ha ribadito che: “la previsione di una clausola di esclusione della garanzia assicurativa per i danni cagionati dal conducente non abilitato alla guida non è idonea ad escludere l’operatività della polizza ed il conseguente obbligo risarcitorio dell’assicuratore, se detto conducente, legittimamente abilitato alla guida, abbia omesso di rispettare prescrizioni e cautele imposte dal codice della strada. Infatti, per mancanza di abilitazione alla guida deve intendersi l’assoluto difetto di patente, ovvero la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di validità e di efficacia della stessa (sospensione, revoca, decorso del termine per la conferma, sopravvenienza di condizioni ostative); ne deriva che, ove esista un’abilitazione alla guida, l’inosservanza di prescrizioni o limitazioni, eventualmente imposte dal legislatore, non si traduce in una limitazione della validità od efficacia del titolo abilitativo, ma integra un’ipotesi di mera illiceità alla guida.
Una conferma della inassimilabilità della mutilazione o minorazione alla guida senza patente rinviene dall’art. 125, comma 4, del codice della strada, che prevede per questo caso una sanzione amministrativa pecuniaria e neppure il ritiro della patente stessa.
D’altronde l’abilitazione alla guida è una valutazione astratta di idoneità che attesta l’esistenza dei requisiti fisici e psichici, ma nulla ha a che vedere con il concreto comportamento del conducente.
Laddove permanesse un dubbio, la clausola predisposta dalla società di assicurazione dovrebbe essere interpretata contra stipulatorem (art. 1370 cod. civ.).
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Alcoltest – non corretto funzionamento dello strumento
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 48840 del 10 dicembre 2015, ha ribadito che: “Nel caso di accertamento dello stato di ebbrezza effettuato con etilometro spetta all’imputato provare eventuali vizi della strumentazione tecnica o nell’esecuzione dell’aspirazione, essendo irrilevante la mancanza dell’omologazione dello strumento”.
Ed infatti, in tema di circolazione stradale, il superamento delle soglie del tasso alcolemico, rilevante ai fini della valutazione del disvalore del fatto, integra una presunzione assoluta dello stato di ebbrezza, che non ammette prova contraria, considerato che la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza ha natura di reato ostativo rispetto a più gravi delitti contro l’integrità fisica e la vita della persona umana, che tale stato agevola nella sua consumazione, come opportunamente chiarito dalla Corte di Cassazione penale, Sezione IV, con la sentenza del 16 dicembre 2014.
L’esito positivo dell’alcoltest è idoneo a costituire prova della sussistenza dello stato di ebbrezza, per cui è onere del conducente – imputato fornire eventualmente la prova contraria a tale accertamento, dimostrando vizi od errori di strumentazione, e/o di metodo nell’esecuzione dell’aspirazione, e/o vizi correlati all’omologazione dell’apparecchio, non essendo sufficiente la mera eccezione di difettosità, e/o l’assenza di omologazione dell’apparecchio utilizzato per la prova.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Responsabilità medica – cartella clinica incompleta
Il punto di partenza è la natura della responsabilità.
Come noto, da una quindicina d’anni a questa parte, la responsabilità medica ha subito un profondo ripensamento, spostandosi dall’area dell’illecito aquiliano all’ambito della responsabilità contrattuale.
Le conseguenze, di questa lettura, sono state significative, e, in ambito strettamente tecnico, hanno determinato un completo rovesciamento dell’onere probatorio, ora decisamente favorevole per il danneggiato (o i suoi eredi) e gravoso per il danneggiante.
La Corte di Cassazione (come rimarcato anche con la sentenza n. 6209 del 31 marzo 2016), ha precisato che, l’applicazione dell’art. 1218 c.c. comporta per la struttura ed i sanitari convenuti in giudizio l’obbligo di fornire la prova liberatoria richiesta dalla norma.
Per quanto riguarda, poi, la tenuta della cartella clinica, si tratta di un obbligo che grava sulla struttura, la cui violazione determina un danno per il paziente.
La Corte ha rimarcato l’importanza di questo documento, fondamentale per ricostruire i fatti e per valutare non solo l’aspetto soggettivo dell’illecito, ma anche lo stesso profilo eziologico.
L’omissione imputabile al medico nella redazione della cartella clinica consente il ricorso alle presunzioni in ordine alla sussistenza del nesso causale intercorrente tra prestazione medica ed evento dannoso, assumendo rilievo, al riguardo, il criterio della “vicinanza alla prova”, cioè della effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Omessa sterilizzazione
Il Tribunale, Reggio Emilia, Sezione II civile, sentenza n. 1298 del 07 ottobre 2015, ha precisato che: “il paziente che agisca in giudizio, deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, è tenuto a dimostrare l’esistenza del contratto e ad allegare l’inadempimento del sanitario, incombendo sul sanitario (o sulla struttura ospedaliera) l’onere di provare che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente.
Il Tribunale di Reggio Emilia, sezione II civile, con la sentenza n. 1298 del 07 ottobre 2015 n° 1298, ha accolto la richiesta risarcitoria, avanzata da due coniugi, a seguito del sesto parto dell’attrice, malgrado una precedente richiesta di sterilizzazione, rimasta, pertanto, inadempiuta, da parte della struttura sanitaria, avanzata durante il parto del quinto figlio.
Le voci di danno dedotte in citazione sono il danno biologico occorso alla donna ed il danno patrimoniale e non patrimoniale.
Il contesto del fatto, nel quale si colloca il fattore causale e colpevole poi sfociato nella nascita del sesto figlio della coppia è dunque quello del quinto parto, in cui era stato espresso e formalizzato il desiderio di subire, all’esito del parto cesareo, un intervento di sterilizzazione tubarica.
In punto di fatto, detto richiesto intervento risultava omesso ed, inoltre, di tutto ciò non v’era traccia alcuna nella scheda di dimissione, al termine del suddetto ricovero, così confermandosi la “leggerezza dei sanitari”, costituendo, poi, documentazione di un fatto richiesto (mancato intervento di sterilizzazione) e non, viceversa, conoscenza da parte dei richiedenti che nulla di quanto richiesto era stato adempiuto.
Il petitum, da parte dei coniugi, veniva articolato per il risarcimento per i danni occorsi (stante i vari disagi doverosamente documentati da accessi al pronto soccorso)), per il risarcimento per i disturbi accusati dopo il parto, per il risarcimento per la negazione del diritto di autodeterminazione nella scelta di avere altri figli, per l’anticipazione delle spese per la crescita dell’ultimo figlio, ed infine la rifusione delle spese sostenute per la mediazione esperita, siccome obbligatoria, ex D.Lgs. 28/2010.
Il Giudice ha, pertanto, ritenuto provata la mancata effettuazione dell’intervento, a fronte della richiesta avanzata; provato il danno alla salute della donna alla vigilia del sesto parto; provata la lesione al diritto di autodeterminarsi nella scelta di avere altri figli per entrambi i coniugi; provato (nella stima) il danno connesso alle spese da affrontare per la crescita del sesto figlio.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Ciclomotore – trasporto passeggero – validità copertura assicurativa
La previsione di una clausola di esclusione della garanzia assicurativa per i danni causati dal conducente non abilitato alla guida non è idonea ad escludere l’operatività della polizza e l’obbligo risarcitorio dello assicuratore nel caso in cui il conducente, abilitato alla guida, abbia omesso di rispettare prescrizioni ed obblighi di cautela imposti dalle norme del codice della strada, quale quello di avere trasportato un passeggero quantunque non consentito.
Infatti, per mancanza di abilitazione alla guida si deve intendere un difetto assoluto relativo alla patente di guida, ossia la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di validità e di efficacia della stessa (quale ad esempio: sospensione, revoca, decorso del termine per la conferma della patente o sopravvenienza di condizioni ostative alla guida).
Conseguentemente, ove esista un’abilitazione alla guida, l’inosservanza di prescrizioni o limitazioni, eventualmente imposte dal legislatore, non si traduce in una limitazione della validità o dell’efficacia del titolo abilitativo, ma integra una mera ipotesi di illiceità della guida.
Infatti, non risultando contestato che il conducente del motociclo fosse in possesso di valida patente di guida, deve ritenersi che la sola circostanza che trasportasse un passeggero non valga a rendere inoperante la garanzia, ove la specifica ipotesi di esclusione non fosse espressamente prevista dalle condizioni di polizza.
Incidente stradale – prelievo ematico
Per procedere a prelievo ematico in caso di sinistro stradale, ex art. 186, comma 5, cod. strad., non occorre il consenso dell’interessato, posto che la ratio della norma è quella di ottenere informazioni utili per la verifica di uno stato di ebbrezza alcolica del conducente rimasto coinvolto in un incidente stradale, ed in quanto l’art. 186, comma 5, cod. strad., non contiene alcun riferimento al consenso dell’interessato.
Ed infatti, la sola condizione posta dalla norma, di cui sopra, è quella di essere in presenza di conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, sicché la richiesta della polizia giudiziaria di accertamento del tasso alcolemico di siffatti conducenti può essere l’unica causa di tale accertamento e non richiede uno specifico consenso dell’interessato, oltre a quello eventualmente richiesto dalla natura delle operazioni sanitarie strumentali a detto accertamento.
La fattispecie di cui all’art. 356 c.p.p., dalla cui ricorrenza deriva l’obbligo di avviso ex art. 114 disp. att. c.p.p., presuppone che vi sia un soggetto nei cui confronti vengono svolte le indagini e pertanto la previa acquisizione di una notitia criminis.
Il prelievo ematico compiuto nell’ambito della esecuzione di ordinari protocolli di pronto soccorso, al dì fuori della emersione di figure di reato e di attività propedeutiche al loro accertamento, non rientra, pertanto, in alcun modo negli atti di cui all’art. 356 c.p.p., sicché non sussiste alcun obbligo di avvertimento.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Vittima strada – danno patrimoniale da assistenza domiciliare
La Cassazione, sezione III civile, con la sentenza n. 7774 del 20 aprile del 2016, ha precisato che:
La liquidazione dei danni futuri consistenti nelle spese che la vittima di un incidente stradale dovrà sostenere per la collaborazione di terzi nelle faccende domestiche e personali, anche quando avvenga in via equitativa, obbliga il giudice ad indicare, sia pure sommariamente, i criteri adoperati, in modo da evitare che la decisione sia arbitraria e sottratta ad ogni controllo.
Il giudice di merito nel motivare la propria decisione sulla liquidazione del danno patrimoniale da assistenza domiciliare non può limitarsi ad indicare un semplice calcolo matematico in quanto violerebbe in primis quel principio di “minimo di motivazione” (cfr Cass., SS.UU., sent. n. 8053/14).
Difatti va precisato qual è il presupposto stesso della stima del danno: ovvero da quali elementi la Corte d’Appello abbia tratto il dato relativo al numero di ore di assistenza di cui il danneggiato ha necessità; da quali elementi abbia tratto il dato relativo alla retribuzione dovuta all’assistente; da quali elementi abbia tratto il dato relativo agli oneri previdenziali accessori che l’assunzione di un collaboratore domestico comporterebbe.
La liquidazione dei danni futuri consistenti nelle spese che la vittima di un incidente stradale dovrà sostenere per la collaborazione di terzi nelle faccende domestiche e personali, anche quando avvenga in via equitativa, obbliga il giudice “ad indicare, sia pure sommariamente, i criteri adoperati, in modo da evitare che la decisione sia arbitraria e sottratta ad ogni controllo” (cfr Cass., sez. III, sent. n. 752 del 23.01.02).
liquidazione del danno patrimoniale permanente futuro può avvenire, ai sensi dell’art. 2056 c.c., sulla base dell’id quod plerumque accidit, di fatti notori e di massime di esperienza: tra le quali, nel caso di specie, quella secondo cui chi non è in condizioni di provvedere alle proprie esigenze personali normalmente ricorre all’ausilio di un infermiere o di un assistente.
La liquidazione del danno patrimoniale permanente passato può avvenire anch’essa in via equitativa, ex artt. 1226-2056 c.c., ove ne ricorrano i presupposti (ovvero l’impossibilità della stima del danno nel suo esatto ammontare).
Tuttavia, trattandosi di un pregiudizio che si assume già avvenuto, il giudice non può prescindere dall’accertarne la concreta sussistenza, senza potere ricorrere a “ragionevoli previsioni”, consentite per quanto detto solo con riferimento al danno futuro (cfr Cass., sez. III, sent. n. 24205 del 13.11.14).
Pertanto, quando si tratti liquidare un danno passato permanente che si assuma essere consistito nella necessità di una spesa periodica per assistenza, delle due l’una: o il danneggiato dimostra di averla sostenuta (anche attraverso presunzioni semplici, ex art. 2727 c.c.), oppure nessuna liquidazione può essere consentita.
Il danno per spese di assistenza, infatti, quando si assuma essere già maturato al momento della liquidazione, è rappresentato dalla spesa sostenuta, non dalla necessità di sostenerla.
Inoltre, chiarisce la Suprema Corte, che nella liquidazione del danno patrimoniale consistente nelle spese che la vittima di lesioni personali deve sostenere per l’assistenza domiciliare, il giudice deve detrarre dal credito risarcitorio sia i benefici spettanti alla vittima a titolo di indennità di accompagnamento (art. 5 l. 12.6.1984 n. 222), sia i benefici ad essa spettanti in virtù della legislazione regionale in tema di assistenza domiciliare, legislazione che in virtù del principio jura novit curia il giudice deve applicare d’ufficio, se i presupposti di tale applicabilità risultino comunque dagli atti.
Il danno permanente futuro, consistente nella necessità di dovere sostenere una spesa periodica vita natural durante, non può essere liquidato semplicemente moltiplicando la spesa annua per il numero di anni di vita stimata della vittima, ma va liquidato o in forma di rendita; oppure moltiplicando il danno annuo per il numero di anni per cui verrà sopportato, e quindi abbattendo il risultato in base ad coefficiente di anticipazione; od infine attraverso il metodo della capitalizzazione, consistente nel moltiplicare il danno annuo per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie.
Avv. Arianna Rossi Consigliere Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Omicidio stradale: indicazioni operative sulla nuova disciplina
A seguito dell’introduzione dei nuovi reati di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.) e di lesioni personali stradali (art. 590-bis c.p.), ad opera della L. 23 marzo 2016, n. 41, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 70 del 24 marzo 2016 e in vigore da 25 marzo 2016, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento, con la Circolare n. 5/2016 del 29 marzo 2016, è intervenuta allo scopo di fornire le prime linee guida e le indicazioni operative, evidenziando alcune criticità presenti all’interno della novella legislativa.
Stante l’attuale formulazione dell’art. 589-bis c.p., viene punito con la pena della reclusione da due e sette anni (sanzione che consente l’arresto facoltativo in flagranza ex art. 381 c.p.p. ed il fermo di indiziato di delitto ex art. 384 c.p.p.), il soggetto che, per colpa, cagioni la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale.
Una prima problematica attiene alla apparente esclusione dall’ambito della responsabilità colposa, della “c.d. colpa generica”, ovvero quella dovuta a imperizia, negligenza ed imprudenza, posto che, a livello letterale, la norma fa espresso riferimento alla “violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale” e, dunque, facendo espresso riferimento alla sola “colpa specifica”.
La soluzione interpretativa migliore è quella di ritenere che, nonostante l’infelice formulazione della norma, anche i profili di colpa generica possano ricomprendersi nell’ampia nozione di “colpa” voluta dal legislatore della riforma.
La novella ha introdotto importanti novità anche relativamente all’aggravamento di pena per i fatti commessi da soggetti sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti, attraverso il comma 2 dell’art. 589-bis c.p., il quale contempla una nuova aggravante speciale ad effetto speciale, per la quale è prevista la pena della reclusione da otto a dodici anni, per il caso di omicidio stradale commesso dal conducente in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze droganti.
Si tratta di una circostanza aggravante applicabile non a “chiunque” ma solo al “conducente di un veicolo a motore”, con una riduzione dell’ambito di applicazione della norma che non ricomprende gli utenti della strada diversi dal conducente di un veicolo a motore che abbiano provocato un incidente stradale mortale nelle condizioni di grave alterazione.
Premesso che, secondo la Procura, l’aggravante risulta applicabile anche quando l’incidente non si sia verificato in ragione dell’alterazione del conducente ma in ragione di altri profili di colpa, il problema maggiore è quello del riscontro dello stato di alterazione, posto che l’aggravamento di pena presuppone l’accertamento positivo del tasso alcolemico che deve essere superiore a 1,5 g/l, ovvero dello stato di alterazione derivante dall’uso di sostanze stupefacenti.
La Procura sofferma l’attenzione sulle attività che possono essere compiute coattivamente sul conducente, ovvero sui c.d. “prelievi coattivi”, posto che la predeterminazione per legge fornita dall’art. 13 Cost., sulle modalità cui può procedersi a detti prelievi deve essere ritenuta tassativa e non meramente esemplificativa.
Alla luce dei principi espressi dalla sentenza della Corte Costituzionale del 9 luglio 1996, n. 238, la quale ha disposto che il prelievo ematico comporta una restrizione della libertà personale, quando se ne renda necessaria l’esecuzione coattiva, perché la persona sottoposta all’esame peritale non acconsente spontaneamente al prelievo, ed è una restrizione che non solo interessa la sfera della libertà personale ma la travalica in quanto invade anche se in minima parte la sfera corporale della persona, deriva che non sarebbe legittimo imporre il “prelievo ematico”, in quanto non ricompreso espressamente tra quelli autorizzati, sebbene si tratti di uno strumento affidabile per accertare l’alterazione psico-fisica indotta dall’abuso di alcool o droghe.
Di conseguenza, il prelievo ematico non potrà mai essere imposto attraverso il ricorso allo strumento di cui agli artt. 224-bis e 359-bis c.p.p.; in linea con la più accreditata giurisprudenza, si deve ritenere che, se i sanitari non abbiano voluto sottoporre il conducente a cure mediche ed a prelievo ematico, la richiesta degli organi di polizia giudiziaria di effettuare l’analisi del tasso alcolemico per via ematica presupporrebbe sempre l’avviso all’indagato della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia, in mancanza del quale si configura una nullità a regime intermedio non più deducibile dopo la deliberazione della sentenza di primo grado (Cass. pen., Sez. IV, 23 ottobre 2015 e Sez. Un., 29 gennaio 2015).
La novella ha introdotto una ulteriore ipotesi aggravata, contemplata nel comma 3 dell’art. 589-bis c.p., punita con la pena della reclusione da otto a dodici anni, in caso di omicidio provocato da un soggetto in stato di ebrezza alcolica grave o di alterazione psico-fisica derivante all’assunzione di sostanze stupefacenti, o che eserciti professionalmente l’attività di trasporto di persone e di cose, o che sia conducente di autoveicolo, anche con rimorchio, di massa complessiva a pieno carico superiore a 3,5 t., o che sia conducente di autobus e di altro veicolo destinato al trasporto di persone il cui numero di posti a sedere, escluso quello del conducente, sia superiore a otto, o che si tratti di conducente di autoarticolato e di autosnodato.
Altra circostanza aggravante, questa volta contemplata nel comma 4 dell’art. 589-bis c.p., prevede la pena della reclusione da cinque a dieci anni in caso di omicidio stradale commesso da conducente di veicolo a motore che risulti in stato di ebbrezza con tasso alcolemico superiore a 0,8 g/l ma non superiore a 1,5 g/l (fattispecie corrispondente a quella di cui all’art. 186, comma 2, lett. b) cod. strad.).
Nel successivo comma 5 la stessa pena è estesa ad ulteriori ipotesi di gravi infrazioni al codice della strada, quali:
• superamento di specifici limiti di velocità;
• attraversamento delle intersezioni semaforiche disposte al rosso o circolazione contromano;
• effettuazione di una manovra di inversione del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi;
• effettuazione di sorpassi azzardati
Infine, un’ultima aggravante è prevista nel comma 6 dell’art. 589-bis c.p., per il caso in cui l’autore del reato non abbia conseguito la patente o l’abbia revocata o sospesa o circoli con veicolo non assicurato.
La Procura detta alcune linee guida anche per il nuovo reato di lesioni personali stradali, di cui all’art. 590-bis c.p., per il quale vengono evidenziate le medesime perplessità, sopra evidenziate, in relazione al profilo della colpa generica e per il quale si rimanda alla medesima soluzione prospettata all’inizio dell’approfondimento.
Anche per la fattispecie in commento sono previste le medesime circostanze aggravanti contemplate per l’omicidio stradale e, come accade per tale ipotesi, anche le lesioni stradali possono essere commesse solo dal conducente di veicolo a motore.
Importanti novità si registrano in tema di procedibilità; infatti, mentre l’ipotesi di lesioni non gravi e non gravissime è procedibile a querela di parte, la nuova fattispecie è procedibile d’ufficio.
Modifiche sono state introdotte anche in merito alla competenza giurisdizionale per il reato di lesioni stradali.
La materia è totalmente sottratta alla competenza del giudice di pace, con attribuzione al tribunale in composizione monocratica della fattispecie di lesioni personali stradali gravi o gravissime, anche se aggravate.
Quanto detto non esclude che il giudice di pace non possa occuparsi delle lesioni conseguenti ad incidente stradale, posto che il trasferimento al giudice onorario riguarda le sole lesioni di cui all’art. 590-bis c.p.; per il resto vale la regola generale contenuta nell’art. 4, comma 1, lett. a) del d.lgs. 274/2000, che attribuisce la competenza al giudice di pace per il reato di cui all’art. 590 c.p., limitatamente alle fattispecie perseguibili a querela di parte e ad esclusione solo delle fattispecie connesse a colpa professionale e dei fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene sul lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale quando, in tali casi, derivi una malattia di durata superiore a 20 giorni.
Il comma 8 dell’art. 590-bis c.p. prende in considerazione l’ipotesi delle lesioni personali colpose plurime, stabilendo, in deroga alla disciplina generale di cui all’art. 590, comma 4, c.p., che il limite massimo di pena non sia di cinque anni ma di sette.
I nuovi artt. 589-ter e 590-ter c.p. prevedono ulteriori aggravanti ad effetto speciale nel caso in cui il conducente si sia dato alla fuga; in tali casi la pena è aumentata da un terzo a due terzi e non può comunque essere inferiore a cinque anni, in caso di omicidio, e tre anni, in caso di lesioni.
In assenza di coordinamento normativo, è da ritenere che per i reati di omicidio e lesioni personali stradali, le ipotesi di fuga costituiscano ipotesi speciali rispetto alle fattispecie di omissione di soccorso e di fuga contemplate dall’art. 189, comma 6 e 7 cod. strad., con conseguente esclusione dell’applicabilità di tale ultima normativa generale.
Altre novità introdotte dalla L. 23 marzo 2016, n. 41 attengono al computo delle circostanze, per il quale, l’intenzione del legislatore di aggravare la risposta sanzionatoria per i delitti contro la vita e l’incolumità individuale commessi nell’ambito della circolazione stradale, fa sì che le concorrenti circostanze attenuanti (diverse da quelle di cui agli artt. 98 c.p. “fatto commesso da minore” e 114 c.p. “contributo di minima importanza del concorrente nel reato”) non possano essere considerate equivalenti o prevalenti, Inoltre, la relativa diminuzione si opera sulla quantità di pena determinata ai sensi delle predette aggravanti.
Per quanto qui interessa, un’ultima modifica degna di nota attiene alla disciplina della prescrizione. A seguito della modifica dell’art. 157, comma 6, c.p., si prevede il raddoppio dei termini di prescrizione dei reati di omicidio colposo commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica con tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l, o da soggetto sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e di omicidio e lesioni personali colposi plurimi.
Altre modifiche previste dalla novella possono così essere sintetizzate:
• viene aumentata la pena edittale minima per il reato di lesioni volontarie, portata da tre mesi a sei mesi di reclusione;
• la condanna o il patteggiamento per i reati di omicidio stradale e lesioni personali stradali gravi o gravissime comporta la revoca della patente di guida anche nel caso in cui sia concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena;
• l’art. 406, comma 2-ter c.p.p., non consente più di una proroga dei termini di durata delle indagini preliminari relative ai reati in commento;
• la richiesta di rinvio a giudizio del p.m. deve essere depositata entro trenta giorni dalla chiusura delle indagini preliminari;
• tra la data del decreto di rinvio a giudizio e quella fissata per il giudizio non può intercorrere un termine superiore a sessanta giorni;
• il decreto di citazione a giudizio deve essere emesso entro trenta giorni dalla chiusura delle indagini preliminari (art. 552, comma 1-bis c.p.p.) e la data di comparizione in udienza deve essere fissata non oltre novanta giorni dalla emissione del decreto di citazione (art. 552, comma 1-ter, c.p.p.).
Avv. Angelo Pisarro Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Incidente stradale – prelievo ematico
Per procedere a prelievo ematico in caso di sinistro stradale, ex art. 186, comma 5, cod. strad., non occorre il consenso dell’interessato, posto che la ratio della norma è quella di ottenere informazioni utili per la verifica di uno stato di ebbrezza alcolica del conducente rimasto coinvolto in un incidente stradale, ed in quanto l’art. 186, comma 5, cod. strad., non contiene alcun riferimento al consenso dell’interessato.
Ed infatti, la sola condizione posta dalla norma, di cui sopra, è quella di essere in presenza di conducenti coinvolti in incidenti stradali e sottoposti alle cure mediche, sicché la richiesta della polizia giudiziaria di accertamento del tasso alcolemico di siffatti conducenti può essere l’unica causa di tale accertamento e non richiede uno specifico consenso dell’interessato, oltre a quello eventualmente richiesto dalla natura delle operazioni sanitarie strumentali a detto accertamento.
La fattispecie di cui all’art. 356 c.p.p., dalla cui ricorrenza deriva l’obbligo di avviso ex art. 114 disp. att. c.p.p., presuppone che vi sia un soggetto nei cui confronti vengono svolte le indagini e pertanto la previa acquisizione di una notitia criminis.
Il prelievo ematico compiuto nell’ambito della esecuzione di ordinari protocolli di pronto soccorso, al dì fuori della emersione di figure di reato e di attività propedeutiche al loro accertamento, non rientra, pertanto, in alcun modo negli atti di cui all’art. 356 c.p.p., sicché non sussiste alcun obbligo di avvertimento.
Dott. Alessandro Taddia Consulente Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Guida sotto effetto di droghe – presupposto violativo
Va ricordato che la norma punisce chi guida sotto l’effetto delle sostanze stupefacenti e non chi viene trovato positivo agli esami.
Ha infatti precisato la Corte Costituzionale (sentenza n. 277 del 27 luglio 2004): “…la norma non vieta di guidare dopo avere usato stupefacenti, ma assoggetta a sanzione penale la condotta di chi si metta alla guida in uno stato di alterazione indotto dall’uso di sostanze stupefacenti…, per cui, si è, dunque, in presenza di una fattispecie che risulta integrata dalla concorrenza di due elementi:
1 ) obiettivamente rilevabile dagli agenti di polizia giudiziaria (lo stato di alterazione) e per il quale possono valere indici sintomatici,
2 ) consistente nell’accertamento della presenza, nei liquidi fisiologici del conducente, di tracce di sostanze stupefacenti o psicotrope, a prescindere dalla quantità delle stesse,
essendo rilevante non il dato quantitativo, ma gli effetti che l’assunzione di quelle sostanze può provocare in concreto nei singoli soggetti.
Pertanto, solo l’esame sul sangue potrebbe consentire di accertare se il conducente sia sotto l’effetto delle sostanze stupefacenti, unitamente, però, ad una visita medica che accerti lo stato di alterazione psicofisica.
La giurisprudenza ha, infatti, più volte rappresentato che: “non è consentito desumere la sussistenza del reato di guida in stato alterazione psicofisica, dovuta all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, sulla base dei soli dati sintomatici. Per l’accertamento del reato occorrono la presenza di un adeguato esame chimico su campioni liquidi biologici (con esito positivo), nonché l’esecuzione di una visita medica che certifichi uno stato di alterazione psicofisica – riconducibile all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Ne deriva che, ove non venisse adeguatamente certificato lo stato di alterazione psicofisica indotta dalle sostanze stupefacenti, la fattispecie in considerazione non sarebbe integrata dalla presenza del mero esame ematico, poiché una diversa soluzione interpretativa finirebbe per punire anche chi non versa sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.
A supporto di quanto sopra concorre la sentenza emessa dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Pesaro (sentenza del 16 dicembre 2014), così significando: “tale elemento non è sufficiente a dimostrare la sussistenza del reato in contestazione atteso che costituisce dato di comune esperienza e maturato da que¬sto giudice in processi analoghi, che l’accertamento della positività a sostanze stupefacenti nelle urine e nel sangue non è da solo sufficiente a dimostrare l ‘attualità dell’assunzione idonea ad integrare il reato in contestazione, soprattutto quando, come nel caso di specie, in assenza di un esame del sangue non è stata determinata neppure la percentuale della sostanza stupefacente individuata nel campione di urina”.
Inoltre, il Giudice, di cui sopra, ha valutato l’ulteriore elemento necessario per la configurazione della fattispecie contestata, rilevando che, nel verbale di accertamento, i verbalizzanti non hanno dato atto della presenza di alcun altro sintomo tipico della recente assunzione di sostanze stupefacenti (ad esempio, stato confusionale, dilatazione delle pupille, difficoltà nella deambulazione o nell’eloquio).
Avv. Angelo Pisarro Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Mancato uso cinture e/o casco – risarcibilità
Allorquando siano accertate la pericolosità e l’imprudenza della condotta del danneggiato, la colpa di questo concorre, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., con quella presunta del conducente, in quanto la presunzione di colpa del conducente del veicolo, giusto il dettato dell’art. 2054, comma 1,c.c., non opera in contrasto con il principio della responsabilità per fatto illecito fondato sul rapporto di causalità tra evento dannoso e condotta umana.
Ne sovviene che “l’omesso uso delle cinture di sicurezza (e/o del casco protettivo), può costituire comportamento colposo del danneggiato, causalmente rilevante per il verificarsi del pregiudizio, come ha opportunamente precisato la giurisprudenza.
Ed infatti, la giurisprudenza richiede, ai fini della diminuzione del risarcimento, l’allegazione e la dimostrazione che il corretto uso dei sistemi di ritenzione avrebbe ridotto (o eventualmente eliso) il danno.
Il mancato utilizzo delle cinture (e/o del casco protettivo) e l’incidenza eziologica, che tale omissione possa avere determinato sull’evento dannoso, sono elementi suscettibili di essere appurati mediante consulenza tecnica disposta dal giudice.
La prova del mancato impiego delle cinture di sicurezza (e/o del casco protettivo),resta a carico di chi ne eccepisca la rilevanza, con la conseguenza che l’insufficienza della prova offerta impone di non ritenere operante il concorso della parte lesa alla causazione dell’evento.
L’art. 1227, comma 1, c.c., nello stabilire che il risarcimento non è dovuto per i danni causati dal comportamento colposo del danneggiato, prescrive al giudice di indagare d’ufficio sull’eventuale concorso di colpa del danneggiato e sulla sua incidenza in ordine alla genesi del danno, con la puntualizzazione secondo cui occorre che risultino prospettati gli elementi di fatto dai quali sia ricavabile, sul piano causale, la colpa concorrente del danneggiato.
Non si ravvisa, poi, un’ipotesi di concorso colposo del passeggero – danneggiato, nella sua mera accettazione del trasporto sul veicolo con alla guida un conducente in evidente stato di ebbrezza.
Sotto il profilo penale, risponde del delitto di lesioni colpose da sinistro stradale, ai danni del passeggero, il conducente che non faccia indossare le cinture di sicurezza (e/o il casco protettivo), perché l’obbligo di verificarne l’uso rende l’evento non riconducibile a colpa esclusiva della persona offesa.
Ne deriva che, chi rende possibile la circolazione del veicolo, con a bordo il trasportato, ha l’obbligo di effettuare la circolazione in sicurezza e nel rispetto delle norme che la regolano, anche dove gli obblighi imposti dalla legge siano rivolti personalmente verso i soggetti trasportati, trattandosi di violazione dei doveri di diligenza e prudenza (ex art. 1176 c.c.).
Può , quindi, ritenersi configurato il concorso di colpa di un trasportato per la morte di altro trasportato ( in età neonatale), non posizionato nell’apposito seggiolino e trattenuto dalle cinture di sicurezza.
Il principio di cui all’art. 1227 c.c. (riferibile anche alla materia del danno extracontrattuale, per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 2056 c.c.) della riduzione proporzionale del danno in ragione dell’entità percentuale dell’efficienza causale del soggetto danneggiato, si applica non solo nei confronti del danneggiato (che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito e al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta), ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l’evento di danno subìto proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni subiti iure proprio.
Del tutto opportuno precisare che, del fatto illecito del minore, sono tenuti a rispondere i genitori, ex art. 2048 c.c..
Dott. Alessandro Taddia Consulente Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Insidia stradale – risarcimento danni
L’orientamento giurisprudenziale, come precisato anche dal Tribunale di Napoli , sezione III, con la sentenza n. 144 del 06 gennaio 2016, ritiene configurabile la responsabilità oggettiva, ex art. 2051 c.c., in capo all’ente gestore, ivi compresi i concessionari di autostrade, di un controllo sempre più pregnante sul proprio territorio grazie alle “moderne tecnologie che offrono sempre più efficaci dotazioni e sistemi di assistenza, unitamente al continuo diffondersi della cultura dell’organizzazione gestionale all’interno degli enti, laddove siano adottate politiche di programmazione perio= dica di interventi, controlli e verifiche costanti dello stato manutentivo di ogni ordine di strada”.
Sarà sufficiente, infatti, provare la mera sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno arrecato.
Per contro, l’Amministrazione potrà andare esente da responsabilità solo dimostrando il caso for= tuito.
Viceversa, ritenendo operante -sulla scia della giurisprudenza più risalente nel tempo- l’art. 2043 c.c., incomberà sul danneggiato l’onere di dimostrare la presenza della cosiddetta “insidia” o “tra= bocchetto” con le relative caratteristiche, ovverosia anomalie nel manto stradale, riconducibili ad un pericolo occulto non visibile né prevedibile.
Avv. Angelo Pisarro Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Danno patrimoniale da assistenza domiciliare: motivazione della liquidazione
La Cassazione, sezione III civile, con la sentenza n. 7774 del 20 aprile del 2016, ha precisato che:
La liquidazione dei danni futuri consistenti nelle spese che la vittima di un incidente stradale dovrà sostenere per la collaborazione di terzi nelle faccende domestiche e personali, anche quando avvenga in via equitativa, obbliga il giudice ad indicare, sia pure sommariamente, i criteri adoperati, in modo da evitare che la decisione sia arbitraria e sottratta ad ogni controllo.
Il giudice di merito nel motivare la propria decisione sulla liquidazione del danno patrimoniale da assistenza domiciliare non può limitarsi ad indicare un semplice calcolo matematico in quanto violerebbe in primis quel principio di “minimo di motivazione” (cfr Cass., SS.UU., sent. n. 8053/14).
Difatti va precisato qual è il presupposto stesso della stima del danno: ovvero da quali elementi la Corte d’Appello abbia tratto il dato relativo al numero di ore di assistenza di cui il danneggiato ha necessità; da quali elementi abbia tratto il dato relativo alla retribuzione dovuta all’assistente; da quali elementi abbia tratto il dato relativo agli oneri previdenziali accessori che l’assunzione di un collaboratore domestico comporterebbe.
La liquidazione dei danni futuri consistenti nelle spese che la vittima di un incidente stradale dovrà sostenere per la collaborazione di terzi nelle faccende domestiche e personali, anche quando avvenga in via equitativa, obbliga il giudice “ad indicare, sia pure sommariamente, i criteri adoperati, in modo da evitare che la decisione sia arbitraria e sottratta ad ogni controllo” (cfr Cass., sez. III, sent. n. 752 del 23.01.02).
liquidazione del danno patrimoniale permanente futuro può avvenire, ai sensi dell’art. 2056 c.c., sulla base dell’id quod plerumque accidit, di fatti notori e di massime di esperienza: tra le quali, nel caso di specie, quella secondo cui chi non è in condizioni di provvedere alle proprie esigenze personali normalmente ricorre all’ausilio di un infermiere o di un assistente.
La liquidazione del danno patrimoniale permanente passato può avvenire anch’essa in via equitativa, ex artt. 1226-2056 c.c., ove ne ricorrano i presupposti (ovvero l’impossibilità della stima del danno nel suo esatto ammontare).
Tuttavia, trattandosi di un pregiudizio che si assume già avvenuto, il giudice non può prescindere dall’accertarne la concreta sussistenza, senza potere ricorrere a “ragionevoli previsioni”, consentite per quanto detto solo con riferimento al danno futuro (cfr Cass., sez. III, sent. n. 24205 del 13.11.14).
Pertanto, quando si tratti liquidare un danno passato permanente che si assuma essere consistito nella necessità di una spesa periodica per assistenza, delle due l’una: o il danneggiato dimostra di averla sostenuta (anche attraverso presunzioni semplici, ex art. 2727 c.c.), oppure nessuna liquida= zione può essere consentita.
Il danno per spese di assistenza, infatti, quando si assuma essere già maturato al momento della liquidazione, è rappresentato dalla spesa sostenuta, non dalla necessità di sostenerla.
Inoltre, chiarisce la Suprema Corte, che nella liquidazione del danno patrimoniale consistente nelle spese che la vittima di lesioni personali deve sostenere per l’assistenza domiciliare, il giudice deve detrarre dal credito risarcitorio sia i benefici spettanti alla vittima a titolo di indennità di accompa= gnamento (art. 5 l. 12.6.1984 n. 222), sia i benefici ad essa spettanti in virtù della legislazione re= gionale in tema di assistenza domiciliare, legislazione che in virtù del principio jura novit curia il giudice deve applicare d’ufficio, se i presupposti di tale applicabilità risultino comunque dagli atti.
Il danno permanente futuro, consistente nella necessità di dovere sostenere una spesa periodica vita natural durante, non può essere liquidato semplicemente moltiplicando la spesa annua per il numero di anni di vita stimata della vittima, ma va liquidato o in forma di rendita; oppure moltiplicando il danno annuo per il numero di anni per cui verrà sopportato, e quindi abbattendo il risultato in base ad coefficiente di anticipazione; od infine attraverso il metodo della capitalizzazione, consistente nel moltiplicare il danno annuo per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie.
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Uso della bicicletta x recarsi al lavoro – infortunio in itinere
L’utilizzo della bicicletta da parte del lavoratore per recarsi al lavoro, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, deve essere valutato in relazione al costume sociale, alle normali esigenze familiari del lavoratore, alla presenza di mezzi pubblici, alla modalità di organizzazione dei servizi pubblici di trasporto nei luoghi in cui più è diffuso l’utilizzo della bicicletta, alla tipologia del percorso effettuato, alla conforma= zione dei luoghi, alle condizioni climatiche in atto, alla tendenza presente nell’ordinamento e rivolta alla incentivazione dell’uso della bicicletta.
Nell’infortunio in itinere in oggetto l’uso della bicicletta per recarsi al lavoro è incluso nella tutela assicurativa in relazione alla necessità protetta dall’ordinamento di favorire spostamenti che riducano costi economici, ambientali e sociali”, ex art. 38, D.Lgs 38/00.
In materia l’uso del mezzo proprio non è di ostacolo all’indennizzabilità, ma permane la condizione, già dettata dalla giurisprudenza, che l’uso sia necessitato, essendo sufficiente una necessità relativa (ossia emergente attraverso i molteplici fattori non definibili in astratto che condizionano la scelta del mezzo privato rispetto a quello pubblico), con due limiti individuati a livello giurisprudenziale:
a) il rischio elettivo, inteso come tutto ciò che sia estraneo e non attinente alla attività lavorativa e dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa, ponendo così in essere una condotta interruttiva di ogni nesso tra lavoro rischio ed evento.
b) la normalità e ragionevolezza: entrambe queste nozioni risultano determinabili in relazione a valori costituzionali quali la ragionevolezza (art. 3 Cost.), la libertà di fissare la propria residenza (art. 16 Cost.) le esigenze familiari (art. 31 Cost.), la tutela del lavoro in ogni sua forma (art. 35 Cost.), la protezione del lavoratore caso di infortunio (art. 38 Cost.). La peculiarità di tale approdo interpretativo consiste appunto nel ricercare i criteri individuativi della normalità del percorso e della necessità del mezzo – oltre i quali insorge il rischio elettivo e l’uso non necessitato – facendo ricorso a valori guida dell’ordinamento giuridico, di rango costituzionale.
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Guida in stato di ebbrezza: revoca della patente
Secondo quanto disposto dall’art. 219, comma 3-ter, cod. strad., non è possibile conseguire una nuova patente prima di tre anni a decorrere dalla data di accertamento del reato, nel caso di guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti.
In proposito, l’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Cassazione, con Relazione del 3 agosto 2010, ha affermato che “se a seguito della condanna per una delle contravvenzioni di cui agli artt. 186, 186-bis e 187 sia stata disposta la revoca della patente, il condannato non possa conseguirne una nuova prima di tre anni dalla data di accertamento del reato e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza o del decreto di condanna”.
Il legislatore, secondo i giudici, considerando molto grave il fatto di chi causi un incidente in quanto gravemente ebbro, ha previsto che la patente debba essere immediatamente revocata dal Prefetto, nona vendo senso dover attendere molto tempo, ovvero sino alla fine del processo, per poter applicare la sanzione della revoca.
Il T.A.R. Piemonte, Sezione II, con sentenza n. 1415 del 14 ottobre 2015, a tale riguardo, così ha precisato che “nel caso più grave di guida in stato di ebbrezza la revoca della patente, di durata triennale, decorre dal giorno di commissione del reato e non dalla sentenza di patteggiamento.
Dott. Alessandro Taddia Consulente Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Fermo tecnico del veicolo – prova il danno
La Corte di Cassazione, nel tempo, così si era espressa per quanto alla liquidazione del danno da fermo tecnico (causa sinistro stradale):
“[…] è possibile la liquidazione equitativa del danno da fermo tecnico del veicolo a seguito di sinistro stradale anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso a cui esso era destinato. L’autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio di assicurazione) comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore” (Cass. 04/10/2013, n. 22687).
Sovvertendo quanto precedentemente statuito la Cassazione Civile, sez. III, con la sentenza n. 20620 del 14/10/2015, ha fornito una diversa interpretazione, rilevando che la prospettabilità di un danno da fermo tecnico in re ipsa ha tradizionalmente trovato fondamento nell’osservazione che il danneggiato, in conseguenza del fatto illecito del terzo, fosse stato privato del veicolo per un certo tempo e che per ciò solo egli avrebbe subito un triplice ordine di danni, quali:
a ) il pagamento della tassa di circolazione anche durante il periodo della sosta forzata.
b) il pagamento del premio assicurativo nello stesso periodo.
c) il deprezzamento del mezzo.
Al riguardo la Corte significa che “la tassa di circolazione, a seguito delle modifiche legislative, è stata trasformata in tassa sulla proprietà, sicchè la debenza del tributo prescinde dalla circolazione del veicolo e che è erronea, poi, l’affermazione secondo cui la sosta forzosa del veicolo comporta necessariamente un danno, pari al premio assicurativo ‘inutilmente pagato”.
La decisione in commento respinge, quindi, la tesi della sussistenza in re ipsa del danno da fermo tecnico argomentando che “nel nostro ordinamento non esistono danni in rebus ipsis, e nessun risarcimento è mai esigibile se dalla lesione del diritto e dell’interesse non sia derivato un concreto pregiudizio “.
Ma, si ritiene di dissentire da una tale affermazione in quanto, nel caso di danni da incidente stradale, “il pregiudizio” deve essere riconosciuto, non già per il solo fatto dei danni riportati al veicolo nell’incidente, ma in forza della dimostrazione che, per effetto proprio di tali danni, il titolare sia stato privato della disponibilità del mezzo per un certo tempo, necessario per le riparazioni.
Ugualmente non condivisibile, proprio per la forzata impossibilità dell’uso del veicolo (per cui non vi è una volontà del titolare del veicolo in proposito), il mancato riconoscimento dei costi per la copertura assicurativa.
L’alloggiamento del veicolo incidentato presso l’officina, infatti, non può ricondursi ad una velleità del proprietario bensì al fatto di chi, provocandone il danneggiamento, ne ha impedito la circolazione, pregiudicando la realizzazione del fine precipuo sotteso al pagamento del premio.
Del resto, neppure pare percorribile l’ipotesi teorizzata di sospensione della garanzia assicurativa durante il tempo occorrente per le riparazioni, in quanto la facoltà di sospensione della garanzia, infatti, è normalmente accordata per periodi non frazionabili e ben più estesi dei pochi giorni occorrenti per riparare un veicolo mediamente incidentato.
Del resto, al sinistrato la nuova e diversa pronuncia della Cassazione (n. 20620 del 14.10.2015) impone comportamenti a ben vedere inconciliabili.
Ed infatti:
-gli si domanda di sopportare i costi della garanzia assicurativa, affinchè questa lo tenga indenne anche dai danni eventualmente provocati dal mezzo durante la sosta forzosa;
-gli si chiede di sospendere l’efficacia della copertura per il medesimo tempo, sul rilievo che l’esborso per la r.c.a., relativamente ai giorni in cui il veicolo è indisponibile, costituisca un aggravamento del danno da rimuovere con ricorso all’ordinaria diligenza.
Quanto al deprezzamento del veicolo, la decisione assume che “il pregiudizio non è collegato necessariamente alla riparazione, potendo questa comportarne un incremento di valore”!!!., per cui al riguardo si ritiene non commentare atteso che “mai un mezzo incidentato riparato incrementa il suo valore di vendita, essendo vero l’esatto opposto”.
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Doveri informativi del sanitario
L’attività medico – chirurgica si articola in una serie di condotte che, pur essendo idonee ad incidere sull’integrità fisica delle persone, sono lecite in quanto socialmente utili e finalizzate all’attuazione del diritto costituzionalmente tutelato alla salute (art. 32 Cost.).
L’attività del sanitario è lecita in quanto risulta strumentale alla tutela di un bene costituzionalmente garantito: si tratta del c.d. principio di autolegittimazione dell’attività medica.
Da tale assunto, ad ogni modo, non può trarsi la convinzione dell’irrilevanza della manifestazione di volontà del paziente; al contrario, sia dal secondo comma dell’art. 32 Cost. che dall’art. 13 Cost., si evince il rilievo del consenso al trattamento medico chirurgico.
Nel nostro ordinamento, infatti, soltanto la legge può imporre trattamenti sanitari obbligatori, senza il consenso del paziente, e l’inviolabilità della libertà personale comporta il diritto del malato di decidere liberamente se e come curarsi.
Tanto posto, ben si comprende che, allo stato dell’arte, la liceità dell’attività medico – chirurgica si evince dalla coordinazione del diritto alla salute con l’inviolabilità della libertà personale, resa possibile esclusivamente dalla manifestazione di volontà del paziente al trattamento medico.
Dalla considerazione del consenso come titolo di legittimazione dell’intervento del medico sul pa= ziente derivano due conseguenze:
1 ) in primo luogo, in assenza del consenso (ed ovviamente di una situazione di necessità), l’inter= vento del medico deve considerarsi illecito;
2 ) in secondo luogo, affinchè il consenso del paziente possa costituire espressione della libertà di autodeterminazione costituzionalmente garantita, occorre che esso sia consapevole e, dunque, ‘in= formato’.
In assenza di un’espressa previsione costituzionale del diritto del paziente ad ottenere informazioni complete circa i trattamenti medici, in modo da poter decidere se sottoporvisi o meno, la dottrina ha ravvisato il fondamento di tale diritto in diverse disposizioni costituzionali.
In particolare, nell’art. 2 Cost, tra i diritti inviolabili della persona; nell’art. 23 Cost., tra le presta= zioni personali che non possono essere imposte se non per legge; nell’art. 13 Cost., quale attuazione dell’inviolabilità della persona.
Di certo, la crescente rilevanza attribuita al consenso informato del paziente ed ai corrispettivi do= veri informativi del sanitario testimonia il passaggio da una visione paternalistica dei doveri del medico ad una visione personalista dei diritti del malato, al quale sono riconosciuti sia il diritto alla salute che il diritto alla autodeterminazione.
La questione del consenso informato si correla esclusivamente alla “domanda risarcitoria per lesione del diritto alla salute”, che “rimane ben distinta dalla domanda risarcitoria che postula la lesione del diritto fondamentale all’autodeterminazione a seguito della mancata informazione da parte del sanitario”.
Il diritto di autodeterminazione del paziente, in termini di autonomia rispetto al diritto alla salute, ha ammesso “la risarcibilità della lesione del diritto alla autodeterminazione”, a prescindere dall’accertamento di una scorrettezza professionale ed anche del verificarsi di pregiudizi per il paziente.
Il leading case collega la responsabilità del sanitario, per violazione dell’obbligo del consenso in= formato, alla mera condotta omissiva di inadempimento dell’obbligo di informazione, in ordine alle possibili conseguenze dell’intervento medico, valutando irrilevante la circostanza attinente all’esecuzione, corretta o meno del trattamento chirurgico.
Soltanto in riferimento alla pretesa di risarcimento del danno alla salute, derivato da atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, si impone, ove sia mancata l’adeguata informazione del paziente sui possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, la verifica circa la rilevanza causale dell’inadempimento dell’obbligo informativo rispetto al predetto danno, gravando sullo stesso paziente la prova, anche presuntiva, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento.
Nell’ipotesi in cui non siano stati accertati pregiudizi alla salute, il paziente può agire lamentando esclusivamente la lesione del suo diritto all’autodeterminazione.
Laddove, a fronte della violazione da parte di un sanitario degli obblighi informativi, siano stati riscontrati dei pregiudizi alla salute del paziente, possono aprirsi due distinti scenari:
1 ) nel caso in cui l’intervento medico non assistito da consenso informato sia stato eseguito negli= gentemente, la violazione del diritto all’autodeterminazione rimane assorbita nella violazione del diritto alla salute;
2 ) nel caso, invece, in cui il sanitario abbia operato in modo conforme alla diligenza professionale che gli era richiesta e si siano verificati egualmente pregiudizi statisticamente possibili ed imprevedibili, il paziente, al fine di ottenere il risarcimento del danno, deve provare l’esistenza del nesso eziologico tra l’omissione delle informazioni ed il danno a lui arrecato, ossia deve dimostrare, anche presuntivamente, che, laddove debitamente informato sui rischi dell’intervento, non avrebbe presta= to il consenso a sottoporsi allo stesso.
Il consenso espresso dal paziente, per contribuire alla legittimità dell’intervento medico – chirurgi= co, deve essere personale, specifico ed esplicito, effettivo e reale, attuale ed infine consequenziale ad informazioni complete fornite dal medico ed afferenti la natura e i rischi dell’intervento, nonchè la loro probabilità statistica di verificazione.
Non è, quindi, in grado di assolvere i doveri informativi la consegna di un depliant informativo circa i pregiudizi che potrebbero derivare da un intervento chirurgico.
Il livello culturale del paziente non implica la presunzione di completezza dell’informazione, bensì potrebbe incidere esclusivamente sulle modalità di esternazione delle informazioni.
Tanto più basso è il livello culturale, quanto più chiare e semplici devono essere le modalità infor= mative: tuttavia, rimangono invariati i contenuti delle informazioni.
In tal caso, come ha ben precisato la Corte di Cassazione, l’onere di provare la sussistenza del con= senso informato viene ricondotto al sanitario, in quanto debitore della prestazione medica richiesta.
La dottrina e la giurisprudenza dominanti riconducono il rapporto tra il medico ed il paziente allo schema giuridico della responsabilità contrattuale, che sorge per effetto di un contatto sociale quali= ficato e si modella sul contratto d’opera professionale.
Dal citato rapporto contrattuale discendono, attraverso l’art. 1175 c.c., gli obblighi informativi, ri= tenendo legittima l’attività medica sulla base degli artt. 32 e 13 Cost., ne consegue che, mentre, nell’iter contrattuale ordinario, gli obblighi informativi assumono un rilievo autonomo principal= mente nella fase precontrattuale, quali regole di mera condotta (artt. 1337 e 1338 c.c.), nel rapporto tra medico e paziente gli obblighi informativi rappresentano una parte della prestazione cui il sanitario è obbligato.
Il rinnovato ruolo dell’informazione non rappresenta un caso isolato ai rapporti tra pazienti e me= dici, costituendo invece un trend ormai agevolmente rinvenibile in tutti i rapporti contrattuali ca= ratterizzati dalla presenza di una parte debole.
Infatti, l’informazione, sulla spinta anche del diritto europeo, si è emancipata dal suo marginale ruolo di regola di comportamento per assurgere a regola idonea ad incidere sul contenuto del contratto.
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Incidente stradale – Risarcimento spese legali fase stragiudiziale
La Corte di Cassazione, sezione III civile, con sentenza n. 3266 del 19 febbraio 2016, ha precisato che sono risarcibili le spese legali della fase stragiudiziale nella circolazione stradale.
L’art. 9 comma II, del D.P.R. n. 254/2006, contrasta infatti con l’art. 24 Cost., per cui sono dovute le spese di assistenza legale sostenute dalla vittima allorquando il danneggiato non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore.
L’art. 9 comma II del D.P.R. n. 254/2006, nel caso di accettazione della somma offerta dall’impresa di assicurazione, ossia in caso di transazione (è il caso di specie) esclude che siano dovuti al dan= neggiato i compensi di assistenza professionale diversi da quelli medico-legali per i danni alla per= sona.
Tuttavia aggiunge che questo articolo vada correttamente interpretato: si interpreta nel senso che sono comunque dovute le spese di assistenza legale sostenute dalla vittima allorquando il sinistro presentava particolari problemi giuridici, ovvero (ed è questo il passaggio epocale) quando il dan= neggiato non abbia ricevuto la dovuta assistenza tecnica e informativa dal proprio assicuratore.
Se così non fosse, si dovrebbe “altrimenti ritenere nulla detta disposizione (art. 9 D.P.R. n. 254/06) per contrasto con l’art. 24 Cost. e perciò da disapplicare, ove volta ad impedire del tutto la risarcibilità del danno consistito nell’erogazione di spese legali effettivamente necessarie”.
La Corte conclude affermando che “il problema delle spese legali va correttamente posto in termini di causalità, ex art. 1223 c.c. e non di risarcibilità”.
Le imprese assicuratrici non assolvono in nessun caso all’attività di assistenza tecnica imposta dal I comma dell’art. 9 del D.P.R. n. 254/2006, semplicemente perché non sono istituzionalmente orga= nizzate e strutturate per fornirla.
L’assicuratore non esegue nessuna lettera di messa in mora ex art. 158 d. lgs 209/2005.
In mancanza di una costituzione in mora, non decorrono i termini per la liquidazione, men che meno dell’ispezione peritale, di guisa che il danneggiato potrebbe legittimamente non ricevere né ispezione peritale, né risarcimento, sino a prescriversi, in quanto lo spatium deliberandi decorre dall’invio della lettera raccomandata.
Non vi sono dubbi che l’onere della lettera ricada sull’assicuratore in regime di risarcimento diretto, giacché la lettera è un atto giuridico in senso stretto, per cui l’impresa fornisce il supporto tecnico nella compilazione della richiesta di risarcimento, il suo controllo e l’eventuale integrazione.
Solo in siffatto modo potrebbe ritenersi corretta la procedura messa in atto dall’assicuratore, secondo il chiaro testo previsto dal decreto.
Non è comprensibile, quindi, la evidente disparità di trattamento tra danneggiato tutelato dall’im= presa assicuratrice e danneggiato tutelato dall’avvocato.
Il ricorso all’assistenza di un legale è quindi necessario anche per predisporre tutti gli adempimenti per poter poi agire in giudizio nell’ipotesi in cui non si addivenga ad una soluzione bonaria della lite.
Avviato il procedimento, l’assicuratore in regime di risarcimento diretto, dovrà fornire “ogni assis= tenza informativa e tecnica utile, l’illustrazione e la precisazione dei criteri di responsabilità di cui all’allegato a), art. 9 comma 1, D.P.R. n. 254/06.
L’eventuale accettazione dell’offerta da parte del danneggiato non significa che rispecchi la miglio= re prestazione del servizio e la piena realizzazione del diritto al risarcimento del danno, ex art. 9 D.P.R. n. 254/06.
Sussiste, quindi, una lacuna normativa, cioè il consenso informato, in assenza di informazioni chiare e consapevoli, non può parlarsi di consenso consapevole.
Il danneggiato risarcito sarà sempre un deceptus, in quanto, in ambito di risarcimento ottenuto dallo assicuratore, in assenza di avvocato, non esiste una norma che preveda l’obbligo di far sottoscrivere al danneggiato il consenso informato.
In assenza di consenso informato, la prassi conosce transazioni sottoscritte da ignari danneggiati che non corrispondono ai loro diritti esigibili ed esigenti.
Senza un consenso consapevole, non vi potrà essere una giusta transazione.
Dott. Alessandro Taddia Consulente Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Danno non patrimoniale – motivazione scostamento tabelle milanesi
Sussiste la necessità, nel quantificare il danno non patrimoniale, di ricorrere all’equità.
Questa, difatti, rappresenta l’unica via per addivenire ad una compensazione economica socialmente adeguata del pregiudizio.
La valutazione equitativa non deve soffermarsi sull’esistenza o meno del danno ma esclusivamente sulla sua quantificazione, sotto il profilo economico, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto che, come è facile intuire, sono molteplici e differenti in ogni situazione.
Proprio per tale ragione, si parla di congruità del ristoro del danno, intesa come adeguatezza e pro= porzione, che dovrà essere quanto più possibile vicina all’integrale risarcimento, tenendo conto di tutte le varie voci di danno subito (ovviamente se ve ne è prova), sottoposte necessariamente al libero apprezzamento del giudice, a prescindere dal loro preventivo inquadramento in una determinata categoria.
L’imprescindibilità della valutazione equitativa nel determinare il valore del danno la quale, seppur rispondendo a criteri di elasticità e flessibilità, allo stesso tempo, deve fondarsi su dei parametri prestabiliti, onde evitare che lo stesso tipo di lesione venga valutato in maniera differente da sog= getto a soggetto, rischiando così di venir meno ad uno dei cardini del nostro sistema giuridico e cioè l’uguaglianza sostanziale, oltre che alla prevedibilità della decisione.
Le voci o parametri per i danni non patrimoniali da sinistri stradali, cui più volte si è rimandato, sono inseriti all’interno di tabelle, giudiziali o normative, utilizzate per consentire al giudice di effettuare concretamente una valutazione equitativa del danno, ai sensi dell’art.1226 cc.
E’ utile tener presente che per la liquidazione delle invalidità micropermanenti, in tema di respon= sabilità civile da circolazione stradale, è intervenuto il legislatore con il D.lgs. 209/2005 mentre per quelle macropermanenti o per altre lesioni non disciplinate dal suddetto decreto, i giudici fanno normalmente ricorso a tabelle elaborate nella prassi.
Le tabelle elaborate dai giudici di Milano dispongono dei parametri più validi sotto il profilo equitativo in ambito nazionale e, pertanto, ad esse si dovrebbero ispirare tutti gli altri giudici nella de= terminazione del quantum per ristorare le lesioni di non lieve entità (dal 10% al 100%).
Va, pertanto, considerata errata la liquidazione in misura pari ad un frazione dell’importo liquidato a titolo di danno biologico poiché non consente di controllare l’iter logico seguito dal giudice nella sua quantificazione.
Le tabelle elaborate dai giudici di Milano, come tutti gli altri parametri adottati in sede di valutazione del danno da sinistro stradale, sono mutevoli nel tempo e, pertanto, occorre che vengano aggiornate.
Ne consegue che, un Tribunale che applichi le tabelle esistenti al momento dell’instaurazione del procedimento e non quelle vigenti al momento della conclusione dello stesso, incorre in un grave errore.
Il giudice, pur avendo la facoltà di discostarsi dalle tabelle di Milano, laddove ritenga diversamente procedere, deve fornire alle parti una congrua motivazione per tale scelta, in difetto della sentenza diversamente resa.
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Danno per perdita capacità lavorativa
Nel caso di lesioni sofferte da un soggetto minore (ad es. al momento del sinistro ancora studente), e che abbiano determinato una invalidità permanente pari al 30% e, dunque, di non lieve entità, il giudice di merito, investito della domanda di riconoscimento del conseguente danno futuro patrimoniale per perdita di capacità lavorativa generica, non compie un corretto procedimento di sussunzione della fattispecie, allorquando ritenga di procedere alla liquidazione di tale danno all’interno della liquidazione del danno non patrimoniale, essendo tale possibilità limitata – e sempre salvo dimostrazione in senso contrario di una perdita di chance lavorativa futura specifica nonostante la lievità della lesione – soltanto al caso di lesioni personali di lieve entità e peraltro limitatamente all’ipotesi in cui la loro concreta incidenza sulla futura capacità lavorativa pur generica rimanga oscura, come ha al riguardo precisato la Corte di Cassazione Civile, sezione III, con la sentenza n. 5880 del 24/03/2016.
La dimostrazione di non aver potuto conseguire il diploma a causa del sinistro assume solo il signi= ficato di elemento per valutare il danno da perdita di una capacità lavorativa generica in una possibile proiezione futura come capacità lavorativa specifica e, quindi, come criterio di stima delle possibili conseguenze dannose.
La mancata dimostrazione di tale perdita lascia invece impregiudicata la questione dell’esistenza di un danno alla capacità lavorativa come tale, cioè appunto come capacità lavorativa generica, per cui ne segue che il giudice deve valutare e quantificare tale danno.
Nella fattispecie non ricorre la situazione di mancanza di dimostrazione di elementi concreti per desumere una incidenza sulla capacità lavorativa generica, atteso che, laddove il C.T.U. provvede ad indicare una incidenza delle lesioni, sia sulla capacità di attendere a lavori in piedi, sia su quella di attendere a lavori intellettuali, e considerato che tale incidenza, consistente in una qualche difficoltà nel primo caso ed in minimi risvolti negativi per l’altra, comunque, evidenzia l’ ipotetizzazione di un danno per riduzione della resistenza al lavoro e, quindi, una perdita di chance di poter svolgere lavori richiedenti quella qualità.
Dott. Alessandro Taddia Consulente Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Danno non patrimoniale – convivente della madre della vittima
Rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale l’esistenza di un saldo rapporto legame affettivo con la vittima.
Ed infatti, secondo la Suprema Corte, il danno da perdita del rapporto parentale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, a norma dell’art. 2059 c.c., ma anche quando il fatto illecito abbia leso interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, come confermato anche dalla Corte Costituzionale.
Il criterio d’individuazione degli interessi inerenti alla persona, meritevoli di considerazione per il risarcimento in caso di lesione non è solo quello relativo alla titolarità di una situazione qualificata dal contatto con la vittima che di solito riguarda i rapporti familiari, bensì occorre considerare anche i legami di fatto.
In particolare, l’individuazione della situazione qualificata che consente il diritto al risarcimento, trova un utile riferimento nei rapporti familiari, ma va pacificamente riconosciuta, sia in dottrina che nella giurisprudenza, la legittimazione di altri soggetti, come la convivente more uxorio.
Legittimato a chiedere i danni “iure proprio” è chi ha una duratura comunanza di vita e di affetti con la vittima, dovendo far riferimento all’art. 2 Cost., che attribuisce rilevanza costituzionale alla sfera relazionale della persona, in quanto tale.
Deve pertanto ritenersi che il danno da lutto possa essere astrattamente riconosciuto al soggetto legato da un saldo e duraturo rapporto affettivo con la cd. vittima primaria, previa verifica della relazione esistente.
Al riguardo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Moretti e Benedetti contro Italia del 27-4-2010, ha osservato come la questione dell’esistenza o meno di una “vita familiare” prevista dall’art. 8 della CEDU, in assenza di qualsiasi vincolo di parentela sia una questione di fatto che dipende dall’esistenza di legami personali stretti.
In particolare, la Corte ha precisato che nelle relazioni di fatto la verifica circa il carattere familiare delle relazioni deve tenere conto:” di un certo numero di elementi, come il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni nonché il ruolo assunto dell’adulto nei rapporti con il bambino” ed ha riconosciuto l’esistenza di una vita familiare e la sua lesione.
La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha ulteriormente esteso la nozione di “vita familiare” di cui all’art.8 CEDU ricomprendendovi anche le unioni omosessuali.
La Cassazione civile, ha riconosciuto all’art.8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, valenza di fonte normativa di riconoscimento di una posizione giuridica meritevole di tutela nel nostro ordinamento in linea con l’orientamento evolutivo della giurisprudenza di legittimità, sottolineando l’importanza della “interazione dialogica tra attività ermeneutica del giudice nazionale e di quello europeo nella prospettiva della più completa tutela dei diritti fondamentali”.
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Emotrasfusione – risarcimento
La Suprema Corte, per quanto al risarcimento attinente all’emotrasfusione, evidenzia come:
l’obbligo di controllo e di vigilanza in materia di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico sussisteva a carico del Ministero della sanità (oggi Ministero della salute), anche prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107;
In tali casi, il giudice, una volta accertata l’omissione di tali attività con riferimento alle cognizioni scientifiche esistenti all’epoca di produzione del preparato, e l’esistenza di una patologia da virus HIV, HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione abbia determinato causalmente l’insorgenza della malattia; mentre, se il Ministero avesse tenuto la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato;
la responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti ad infezioni da virus HBV, HIV e HCV contratte da soggetti emotrasfusi è di natura extracontrattuale;
da ciò ne discende che il diritto al risarcimento del danno, da parte di chi assume di aver contratto tali patologie per fatto doloso o colposo di un terzo, è soggetto al termine di prescrizione quinquennale che decorre, a norma dell’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, dal giorno in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche;
che di norma il termine a quo si ritiene coincidente solitamente con la proposizione della domanda amministrativa di cui alla L. n. 210 del 1992;
che tale termine di presentazione della domanda di indennizzo ai sensi della L. n. 210 del 1992 è ritenuto più favorevole per il danneggiato e costituisce << la barriera preclusiva finale, oltre la quale la consapevolezza del danneggiato deve presumersi corrispondente all’id quod plerumque accidit e con quel grado non già di certezza assoluta, ma di rilevante e plausibile completezza sufficiente per intraprendere un’azione per danni>>.
Avv. Arianna Rossi Consulente Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
C.Sinistro stradale – copertura assicurativa
La circolazione, come definita dall’articolo 3, comma 1 e 9 del codice della strada, ha riguardo “al movimento, alla sosta o alla fermata del veicolo”.
A tale scopo il legislatore ha istituito l’assicurazione obbligatoria in materia, precisando così la norma che: “ogni veicolo o natante deve essere assicurato e ciò in vista della realizzazione, nel settore, delle esigenze di solidarietà sociale cui l’art. 2 della Costituzione ha conferito rilevanza costituzionale”.
Per l’operatività della garanzia di responsabilità civile obbligatoria è necessario che il veicolo, nel suo trovarsi sulla strada di uso pubblico o sull’area ad essa parificata, mantenga le caratteristiche che lo rendano tale in termini concettuali e, quindi, in relazione alle sue funzionalità non solo sotto il profilo logico ma anche delle eventuali previsioni normative, risultando invece indifferente l’uso che in concreto se ne faccia, semprechè esso rientri nelle caratteristiche del veicolo medesimo, co= me precisato dalla Corte di Cassazione Civile, a Sezioni Unite con la sentenza n. 86200 del 29 aprile 2015.
Rientra, pertanto, nella copertura assicurativa “qualunque movimento del veicolo”, essendo del tutto indifferente l’uso che se ne faccia, e neppure rileva la distinzione tra “movimento dell’intera massa del veicolo e movimento d’una sua parte”, né la distinzione tra “veicoli monofunzionali e polifun= zionali”, tanto meno che il movimento non sia orizzontale.
E’, pertanto, coperta da garanzia assicurativa la posizione di arresto del veicolo e ciò in relazione sia all’ingombro da esso determinato sugli spazi addetti alla circolazione, sia alle operazioni propedeu= tiche alla partenza o connesse alla fermata, sia, ancora, rispetto a tutte le operazioni che il veicolo è destinato a compiere e per il quale può circolare sulle strade.
L’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile deve, pertanto, coprire qualsiasi incidente causato, utilizzando un veicolo secondo la sua funzione abituale, come bene ha ribadito anche la Corte di Giustizia Europea, Sezione III, con sentenza n. C 162/13 del 4 settembre 2014.
E’ stato, quindi, ritenuto così ricadente nella circolazione stradale: “il danno causato dall’apertura o chiusura d’uno sportello d’un veicolo fermo (Cassazione, Sezione 3, sentenza n. 18618 del 21 set= tembre 2005), ovvero dal ribaltamento del cassone di carico d’un camion (Cassazione, Sezione 3, sentenza n. 8305 del 31 marzo 2008).
A supporto ulteriore, la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con la sentenza n. 24622 del 3 di= cembre 2015, ha ribadito che: “non rileva la distinzione tra movimento dell’intera massa del veicolo e movimento d’una sua parte, sia per la lettera della legge, nella quale non si trova tale distinzione, sia per lo scopo dell’art. 18 della L. 990/69 che è quello di tutelare le vittime ed impone dunque una interpretazione coerente con questa finalità”.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Fermo tecnico – prova del danno
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22687 del 04 ottobre 2013, ha precisato che: “…è possi= bile la liquidazione equitativa del danno da fermo tecnico del veicolo a seguito di sinistro stradale anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso a cui esso era destinato. L’autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio di assicurazione) comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetto a un naturale de= prezzamento di valore, che al pari di qualsiasi altro danno, va allegato e provato” (conforme Suprema Corte di Cassazione, sentenze nn. 17135/2011 e 12820/1999).
Con la sentenza n. 13215 del 26 giugno 2015, la Corte di Cassazione, rileva, quindi, che: “E’ consolidato nella giurisprudenza di legittimità il principio in ragione del quale il c.d. danno da “fermo tecnico”, patito dal proprietario di un autoveicolo a causa della impossibilità di utilizzarlo durante il tempo necessario alla sua riparazione, può essere liquidato anche in assenza d’una prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato. L’autoveicolo, infatti, anche durante la sosta forzata è una fonte di spesa per il proprietario (tenuto a sostenere gli oneri per la tassa di circolazione e il premio di assicurazione), ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore”, come ribadito anche dalle della S.C. nn. 22687 del 04 ottobre 2013 – 23916/06 – 12908/04 e 17963/02.
Infatti: “la prospettabilità di un danno da fermo tecnico in re ipsa, ha tradizionalmente trovato fondamento nell’osservazione che il danneggiato, in conseguenza del fatto illecito del terzo, viene privato del veicolo per un certo tempo. Per ciò solo egli subisce un triplice ordine di danni: a) il pagamento della tassa di circolazione anche durante il periodo della sosta forzata; b) il pagamento del premio assicurativo nello stesso periodo; c) il deprezzamento del mezzo; d) la scelta di acquisto di un’autovettura – con conseguente decisione di assoggettarsi all’imposizione prevista a carico del proprietario – non può che dipendere dalla necessità del danneggiato di utilizzare il mezzo per gli spostamenti, per cui non è dato cogliere il valore della proposta scissione tra titolarità e circolazione”, come acclarato con la sentenza della Corte di Cassazione, n. 20620 del 14 ottobre 2015.
Orbene, a parere degli scriventi, è pacifico che un veicolo, anche durante la sosta (per le necessarie riparazioni) necessita della copertura assicurativa (potendo comunque provocare danni a terzi, se alloggiata su suolo pubblico), ma non appare condivisibile che i costi di tale copertura assicurativa (nel caso di incidente) debbano ricadere sul danneggiato e non sul responsabile del sinistro.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Passeggero che non indossa cinture- concorso di colpa in incidente
Stabilire se la vittima d’un sinistro stradale, al momento del fatto, avesse o non avesse le cinture di sicurezza allacciata, ed in quanta parte, l’eventuale omissione di una tale fattispecie, abbia concausato il sinistro, costituiscono, pacificamente, accertamenti di fatto, non valutazioni in iure.
La Corte di Cassazione, sezione III, con la sentenza n. 126 del 08 gennaio 2016, a tale proposito, ha precisato che: “sul punto che non può chiedersi al giudice di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito Infatti il giudice di merito, al fine di adempiere all’obbligo della motivazione, non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali e a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti, ma è invece sufficiente che, dopo avere vagliato le une e le altre nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, atteso che il sindacato della Corte è, infatti, limitato a valutare se la motivazione adottata dal giudice di merito sia esistente, coerente e consequenziale, nulla rilevandosi che le prove raccolte si sarebbero potute teoricamente valutare in altro modo”.
Per quanto, poi, alla valutazione nella liquidazione del “danno alla salute”, laddove diversi da quelli risultanti dalle tabelle uniformi predisposte dal Tribunale di Milano, nella sentenza, di cui sopra, viene precisato che: “… non è sufficiente che in appello sia stata prospettata l’inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorre che il ricorrente si sia specificamente doluto in secondo grado, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano, e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia provveduto anche a versare in atti”.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Tamponamento: responsabilità
E’ circostanza pacifica che “il caso fortuito e la forza maggiore sono caratterizzati dalla eccezio= nalità, presente quando si ravvisi la necessità di valutare la responsabilità di un soggetto e la ri= conducibilità dell’inadempienza a quest’ultimo che, se impedito contro la sua volontà ovvero costretto da forze esterne preponderanti, può avvalersi dell’esimente che sorge in relazione al nesso causale tra l’inadempienza e la impedita o forzata volontà di adempiere”.
Nè va disatteso che, l’art. 141 del codice della strada, stabilisce “l’obbligo, a carico del condu= cente, di regolare la velocità del veicolo in modo che sia evitato ogni pericolo, per la sicurezza sia delle cose che delle persone”.
Ne sussegue, pertanto, che, in ipotesi di plurimi tamponamenti, “responsabile unico è da conside= rarsi l’ultimo della fila”, che, in movimento e non osservando la distanza di sicurezza, abbia tam= ponato l’ultimo dei veicoli in fermata che lo precedeva, ciò in quanto, come ben recita il codice della strada, il conducente deve sempre essere in grado di fermare tempestivamente il proprio veicolo entro i limiti del suo campo di visibilità e dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile.
A supporto di quanto sopra concorre la sentenza n. 803 del 27 aprile 2015, emessa dal Tribunale di Perugia, n. 803 del 27 aprile 2015, con cui è stato precisato che: “…mentre il caso fortuito consiste in un quid imponderabile ed imprevedibile che si inserisce d’improvviso nell’azione del soggetto, soverchiando ogni possibilità di resistenza di contrasto, la forza maggiore si concreta in un evento derivante dalla natura o dall’uomo che, pur se preveduto, non può essere impedito”.
Il giudice, nella sentenza di cui sopra, ha rileva, inoltre, che “la velocità della vettura condotta dallo attore non risultava commisurata alle caratteristiche e alle condizioni dello stato dei luoghi, ed era tale da non permettere allo stesso di mantenere il controllo del veicolo, che andò a collidere con i veicoli che lo precedevano nello stesso senso di marcia, condotta in contrasto col dettato dell’art. 141, comma 1, del Codice della Strada”.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Incidenti stradali mortali: dolo eventuale
La Cassazione, sezione I penale, con la sentenza n. 37606 del 16 settembre 2015, in conferma dei precedenti pronunciamenti, ha statuito che: “sussiste la fattispecie di omicidio sorretto da dolo di= retto ed alternativo, e non quello di lesioni personali, se il tipo di arma impiegata e specificamente l’idoneità offensiva della medesima, la sede corporea della vittima raggiunta dal colpo di arma e la profondità della ferita inferta inducano a ritenere la sussistenza, in capo all’agente, dell’animus necandi, con la conseguenza che risponde di omicidio con dolo diretto alternativo chi prevede e vuole, come scelta sostanzialmente equipollente, la morte o il grave ferimento della vittima (con= forme Cassazione, Sezione I penale, sentenza n. 30694 del 31 maggio 2011).
La figura del “dolo eventuale”, si individua quando: “l’agente, rappresentandosi l’eventualità di un evento più grave, non avrebbe agito diversamente anche se di esso avesse avuto la certezza e dello evento non voluto ha comunque accettato il rischio che si verificasse”, come precisato dalla Corte di Cassazione, penale, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 12433 del 26 novembre 2009.
In tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando: “l’agente si sia chiara= mente rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciononos= tante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si ve= rifichi”, come significato dalla Corte di Cassazione, penale, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 33343 del 18 settembre 2014.
La linea di demarcazione, quindi, tra “dolo eventuale e colpa cosciente”, è individuata nel diverso atteggiamento psicologico dell’agente che, nel primo caso, accetta il rischio che si realizzi un evento diverso, non direttamente voluto, mentre nella seconda ipotesi, nonostante l’identità di prospettazio= ne, respinge il rischio, confidando nella propria capacità di controllare l’azione.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Pedone investito e infezione ospedaliera: responsabilità
Il Tribunale di Milano, sezione I, con la sentenza n. 4841 del 16 aprile 2015, ha precisato che: “il conducente del veicolo può andare esente da responsabilità, non per il solo fatto che risulti accer= tato un comportamento colposo del pedone ma occorre, altresì, che la condotta del pedone confi= guri, per i suoi caratteri, una vera e propria causa eccezionale, atipica, non prevista né prevedibi= le, che sia stata da sola sufficiente a produrre l’evento”, in ciò conformandosi a quanto statuito dalla Corte di Cassazione.
Ed infatti, la presunzione di colpa del conducente dell’autoveicolo investitore, prevista dall’art. 2054, comma I°, c.c., non opera in contrasto con il principio della responsabilità per fatto illecito, fondata sul rapporto di causalità fra evento dannoso e condotta umana.
Pertanto, la circostanza che il conducente non abbia fornito la prova idonea a vincere la presunzione non preclude l’indagine in ordine all’eventuale concorso di colpa del pedone investito, sussistente laddove il comportamento di quest’ultimo sia stato improntato a pericolosità ed imprudenza.
Per quanto, poi, alla responsabilità medica: “il pedone investito ha il solo onere di dedurre qualifi= cate inadempienze, in tesi idonee a porsi come causa o concausa del danno, restando poi a carico del medico l’onere di dimostrare il contrario, e/o che non sia responsabile di scarsa diligenza o di imperizia, e/o che, pur essendovi stato il suo inesatto adempimento, questo non abbia avuto al= cuna incidenza causale sulla produzione del danno”, come ben precisato dalla Corte di Cassazione Civile nella sentenza n. 15993/2011.
Ne sussegue che, laddove il CTU medico legale abbia accertato che il paziente aveva contratto una infezione in occasione del ricovero presso l’ospedale e subito dopo essere stato investito dall’auto= vettura, il Giudice adito ha la prova della responsabilità dei sanitari (anche per considerazioni di ordine statistico probabilistico).
La persona danneggiata in conseguenza di un fatto illecito, imputabile a più persone legate dal vin= colo della solidarietà, può pretendere, quindi, la totalità della prestazione risarcitoria, anche da una sola delle persone coobbligate, mentre, la diversa gravità delle rispettive colpe di costoro e l’even= tuale diseguale efficienza causale di esse, può avere rilevanza soltanto ai fini della ripartizione in= terna del peso del risarcimento tra i corresponsabili, come ha più volte precisato la S.C..
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Danno non patrimoniale: prova
La Corte di Cassazione Civile, sezione III, con la sentenza n. 7191 del 10 aprile 2015, ha precisato che: “in sede di accertamento e liquidazione dei danni conseguenti a sinistro stradale, anche i danni non patrimoniali debbono essere dimostrati, quanto meno con riferimento a presunzioni, per giustificare l’attribuzione del risarcimento. Nello specifico assume grande rilevanza la qualità ed intensità della relazione affettiva e familiare tra la vittima dell’incidente ed i parenti.
Infatti, anche i danni non patrimoniali debbono essere dimostrati, quanto meno con riferimento a presunzioni, per giustificare l’attribuzione del risarcimento.
Ne deriva che la carenza dell’elemento probatorio, rileva anche con riferimento al danno patrimo= niale, per cui, i danneggiati, sono tenuti a provare, per esempio, che la vittima disponesse di un red= dito e che contribuisse al mantenimento della famiglia, e/o darsi prova di una qualche, sia pur mini= ma rimessa in denaro del defunto in favore dei familiari, etc., così da giustificare la domanda ri= sarcitoria.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Insidia stradale: onere della prova
Con l’ordinanza della Corte di Cassazione, Sezione VI (sottosezione III), n. 1896 del 3 febbraio 2015, è stato precisato che: “la prova del caso fortuito (che consente l’esonero da responsabilità risarcitoria e che si identifica in un fattore estraneo alla sfera soggettiva del custode idoneo ad in= terrompere il nesso di causalità tra la cose e l’evento lesivo), incombe al custode, ma presuppone che il danneggiato abbia fornito in via prioritaria la prova del nesso di causalità tra l’evento dan= noso lamentato e la cosa in custodia”.
Nella ricorribilità dell’art. 2051 c.c., la natura oggettiva della responsabilità da cose in custodia esonera il danneggiato dalla prova soltanto dell’elemento soggettivo della colpa del custode e non anche del nesso di causalità, che invece deve essere fornita, ed in tal caso, ai fini della liberazione dall’obbligazione risarcitoria, incomberà alla parte convenuta dimostrare il caso fortuito.
L’affermata natura oggettiva della responsabilità da cose in custodia non legittima, pertanto, il danneggiato a ritenere assolto l’onere della prova gravante a suo carico (qualunque essa sia e senza alcuna indagine sulle caratteristiche della dedotta ‘insidia’), riferendo per ciò solo al custode ogni altro onere, sub specie di prova liberatoria del caso fortuito, poiché, invero, il danneggiato è tenuto a fornire positiva prova anche in riferimento al nesso di causalità, tra il danno e la res, e, a tal fine, è suo preciso onere dimostrare anzitutto l’attitudine della cosa a produrre il danno, in ragione dell’intrinseca pericolosità ad essa connaturata, rilevandosi, infatti, che il nesso causale non può per definizione essere per ciò pacifico.
Ne deriva che, la oggettiva pericolosità e/o “l’insidiosità” della res, costituisce oggetto dell’indagi= ne sul nesso di causalità, riconducibile all’ambito della prova che grava sul danneggiato, la quale a sua volta costituisce un prius logico rispetto alla prova liberatoria, di cui sarà poi onerato il custode.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Danni da sinistro stradale: tabelle milanesi
La Corte di Cassazione Civile, Sez. 3, con la sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, ha statuito che: “a) il danno non patrimoniale va risarcito in tutte e tre le voci (biologico, morale ed esistenziale) di cui è composto; b) il danno non patrimoniale da lesione del diritto alla salute può essere determinato nel quantum facendo riferimento alle tabelle milanesi, purchè si garantisca alla vittima dell’illecito un ristoro equo, congruo e proporzionato alla gravità dell’offesa subita (se l’importo tabellare non appare sufficiente in rapporto al pregiudizio patito, la somma da risarcire può essere aumentata); c) è risarcibile il danno da perdita della vita immediatamente conseguito alle lesioni riportate a seguito dell’evento illecito (c.d. “danno tanatologico”), così evidentemente intendendo superare il criterio della individuazione di un adeguato periodo di lucidità e di coscienza nella vittima del sinistro ai fini dell’acquisizione al suo patrimonio di un diritto trasmissibile iure successionis.
Nello specifico va evidenziato che la materia del “danno non patrimoniale”, in caso di lesione del diritto alla salute, non è ancora stata disciplinata a livello normativo.
Ed infatti, sono diversi gli strumenti (tabelle per la determinazione del quantum) che vengono uti= lizzate al fine di conteggiare gli importi da corrispondere al danneggiato, a secondo che l’evento il= lecito sia stato originato dal rapporto di lavoro, da circolazione stradale, da malasanità o da altro ancora.
Per alcuni tipi di illecito, in detta assenza, si fa riferimento alle tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale elaborate dai tribunali italiani, ed in particolare a quelle elaborate dal Tribunale di Milano, da considerarsi valido in tutto il territorio nazionale, utilizzate, in sede assicurativa RC auto, per le liquidazioni dei danni macropermanenti (ossia, dei danni i cui postumi permanenti siano contenuti tra i 10 ed i 100 punti percentuali di invalidità), debitamente acclarato anche dalla Supre= ma Corte di Cassazione Civile, Sez. 3, con la sentenza n. 12408 del 07 giugno 2011.
Per i danni micropermanenti da circolazione stradale, invece, è utilizzata una unica tabella, subito elaborata ed allegata all’articolo 139 del richiamato Codice delle Assicurazioni.
Costituendo, quindi, le tabelle milanesi un riconosciuto valido parametro di riferimento per il risar= cimento del danno, il giudice deve esplicitare le ragioni per le quali la somma in essa prevista (quale ristoro del danno patito), debba essere considerata maggiore di queste tabelle.
La S.C. ha, altresì, precisato che la circostanza attenuante, di cui all’art. 62, n. 6, cod. pen., per la sua portata generale, può essere riconosciuta anche quando il danno risarcibile sia di natura psichica o morale, ben potendo anche quest’ultimo essere suscettibile di quantificazione e di riparazione.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Sottopassaggio allagato: danni da risarcire
Il Tribunale, Milano, sez. X, sentenza 23/01/2015 in un caso di danni ad un veicolo, causato dallo allegamento di un sottopassaggio, ha precisato che: “la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c., è di tipo oggettivo e può essere assunta anche da una PA che sia proprietaria e custode del bene in og= getto, dunque in posizione qualificata rispetto al bene, e che pertanto ricorra in capo alla stessa l’onere della prova liberatoria”.
Si tratta, nel caso, da danno in custodia, ex art. 2051 c.c., per cui si considera responsabile del dan= no cagionato dalle cose in custodia del Comune, salvo che questi non dimostri il caso fortuito, su= perando così la concezione secondo la quale per l’individuazione del soggetto responsabile, si face= va leva sul comportamento della persona piuttosto che sulla posizione della stessa rispetto alle cose rivelatesi fonte di danno.
Detta norma prevede, infatti, che il soggetto responsabile vada individuato in colui che ha una relazione qualificata con la cosa e un potere di uso della stessa, reso possibile dall’esercizio di un diritto di proprietà, e/o di altro diritto reale, e/o personale di godimento.
La P.A. incontra il limite posto dalla norma primaria e fondamentale del neminem laedere, in forza della quale essa è tenuta a far sì che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo occulto, un pericolo cioè non visibile e non prevedibile – e quindi non evitabile con l’ordi= naria diligenza -, che dia luogo al cd. “trabocchetto” o insidia stradale.
La responsabilità delineata dall’art. 2051 ha carattere oggettivo, per cui si richiede solo la sussisten= za del nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, mentre non rileva la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.
La responsabilità è, quindi, esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non ad un comporta= mento del responsabile ma al profilo causale dell’evento, cioè il fortuito si riconduce non alla cosa in sé ma ad un elemento esterno, avente i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto del terzo o dello stesso danneggiante.
La custodia si identifica in una potestà di fatto, che descrive un’attività esercitabile da un soggetto sulla cosa in virtù della detenzione qualificata.
Responsabile del danno proveniente dalla cosa non è il proprietario (come nei casi di responsabilità oggettiva di cui agli artt. 2052, 2053 e 2054 ultimo comma), ma il custode della cosa.
Rileva, quindi, la relazione di fatto, e non semplicemente quella giuridica, tra il soggetto e la cosa, che legittima l’affermazione di responsabilità, fondandola sul potere di “governo della cosa”, in quanto la sola relazione giuridica tra il soggetto e la cosa non dà ancora luogo alla custodia (facen= dola solo presumere), allorchè la relazione di fatto intercorra con altro soggetto qualificato che eserciti la potestà sulla cosa.
Il Tribunale di Piacenza, con la sentenza n. 458 del 26 maggio 2011, richiamandosi alla sentenza n. 15383/06, emessa dalla Cassazione, ha precisato che: “tale potere di governo si compone di tre elementi, cioè il potere di controllare la cosa, il potere di modificare la situazione di pericolo creatasi ed il potere di escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è prodotto il danno”
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Ostacolo imprevedibile sulla carreggiata: responsabilità
Del tutto pacifico, come ben precisato dalla S.C., che, per quanto alla responsabilità in capo all’ente proprietario della strada: “la non visibilità assume rilievo oggettivo, mentre la non prevedibilità ha carattere soggettivo”.
La possibilità, e/o l’impossibilità di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza non si atteggiano univocamente in relazione a tutti i tipi di beni demaniali, ma vanno accertati in con= creto da parte del giudice di merito.
Per i beni del demanio stradale, si è precisato che la possibilità in concreto della custodia va verifi= cata non solo in relazione all’estensione delle strade, ma anche alle loro caratteristiche, alla posizio= ne, alle dotazioni, ai sistemi di assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnolo= gico di volta in volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le aspettative della generalità degli utenti.
Ad esempio, per le “autostrade”, che sono naturalmente destinate alla percorrenza veloce in condi= zioni di sicurezza, l’apprezzamento circa l’effettiva possibilità del controllo in base ai parametri so= pra ricordati conduce in genere a conclusioni affermative, e cioè a ravvisare la sussistenza di un rapporto di custodia per gli effetti di cui all’art. 2051 (vedasi Cassazione, Sezione III, sentenza n. 488 del 15 gennaio 2003).
Se il danno è stato determinato da cause intrinseche alla cosa, come il vizio di costruzione e/o quello di manutenzione, la P.A. ne risponde, ex art. 2051, nel mentre, laddove la P.A. dimostra che il danno è stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee (esempio macchia d’olio), create da terzi, non conoscibili, nè eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, è liberata da responsabilità, poichè queste cause estrinseche integrano il caso fortuito richiesto dall’art. 2051 (tra le tante Cass. Sez. III, 26 giugno 2012, n. 10643; Cass., Sez. III, sent. n. 8157 del 03 aprile 2009).
Il Tribunale, Reggio Emilia, sez. II civile, sentenza n. 1392 del 23 ottobre 2014, chiamato a pro= nunciarsi su richiesta danni determinatosi causa di un ostacolo nella strada, così ha stabilito: “l’ente gestore di una strada non risponde del danno causato da una situazione di pericolo estemporanea o da una alterazione imprevedibile dello stato delle cose, non eliminabile nell’immediatezza ma solo successivamente, quando il danno stesso si sia verificato nel lasso temporale necessario ad inter= venire, atteso che l’oggettiva impossibilità di controllo si pone come limite alla configurabilità della custodia. La custodia presuppone il potere di governo della res; se l’esistenza della custodia non può essere a priori esclusa in relazione alla natura demaniale del bene, neppure può essere ritenu= ta in ogni caso sussistente anche quando vi è l’oggettiva impossibilità di tale potere di controllo del bene, che è il presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo. La presenza del caso fortuito (il quale opera sul piano del rapporto causale, recidendo ogni nesso tra custodia e danno) esclude in radice la possibilità di configurare una responsabilità ai sensi dell’art. 2043, dato che non è ravvisabile in concreto alcun profilo di colpa nella condotta del gestore” (conforme Tribunale di Piacenza, sentenza n. 458 del 26 maggio 2011).
In altri termini, se il potere di controllo è oggettivamente impossibile, non vi è custodia, e quindi non vi è responsabilità della P.A. ai sensi dell’art. 2051, poiché manca un elemento costitutivo della custodia (cioè la controllabilità della cosa).
Residuerà, se del caso, una responsabilità secondo l’ordinario paradigma di cui all’art. 2043, pur nella doverosa precisazione che, insidia o trabocchetto, costituiscono solo elementi sintomatici della responsabilità pubblica, ma niente esclude che la responsabilità si possa in concreto configurare anche in un diverso comportamento colposo dell’amministrazione, in quanto: “limitare aprioristi= camente la responsabilità della P.A. per danni subiti dagli utenti dei beni demaniali, alle sole ipotesi della presenza di insidia o trabocchetto, non trova alcuna base normativa nella lettera dell’art. 2043 c.c., e rappresenterebbe quindi un’indubbia posizione di privilegio per la parte pubblica (Cass., sentenze nn. 23277/2010 -18204/2010 – 5445/2006).
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Riconseguimento patente – presupposizione di revoca
Con circolare n. 29675 del 21 dicembre 2015, il Ministero dei Trasporti ha precisato che: “la revo= ca triennale della patente di guida prevista per i conducenti sorpresi alla guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di stupefacenti, decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna e non dalla data di accertamento del reato”, così correttamente interpretandosi l’art. 219, comma 3-ter, della Legge 120/2010, in riferimento agli artt. 186, 186-bis e 187, debitamente avvalorata dalla ordinanza emessa dal Tribunale di Como, II Sez civile, nonché dal TAR, Piemonte-Torino, sez. II, con la sentenza 14/10/2015 n° 1415.
Secondo la suddetta circolare, è proprio sul piano logico che appare dirimente il fatto che i 3 (tre) anni per il riconseguimento della patente debbano decorrere dalla revoca, non potendo precederla. Essendo, poi la revoca, conseguente alla sentenza penale passata in giudicato, anche i 3 (tre) anni per il riconseguimento debbono decorrere da tale data, altrimenti si farebbero decorrere i tre anni da un momento in cui la patente non è stata ancora privata definitivamente di validità ed efficacia.
Il legislatore, infatti, al fine di fissare il riferimento temporale, dal quale decorre il triennio utile per conseguire una nuova patente di guida, ha utilizzato la locuzione “accertamento del reato”, il che consente di ritenere che “detto termine decorra dal momento dell’accertamento del reato da parte del giudice”, il che presuppone il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna.
Si evince una precisa differenziazione fra revoca e sospensione nonché una puntuale individuazione del dies a quo, dal quale far decorrere il termine triennale per il riconseguimento della patente, nella data del passaggio in giudicato della sentenza o decreto penale di condanna.
Il riconseguimento della patente presuppone, pacificamente, la revoca della stessa che, ai sensi dell’articolo 224, consegue ad una sentenza irrevocabile di condanna.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Rifiuto alcoltest – termini sospensione della patente
L’art. 186-bis, comma 6 così recita: “…Salvo che il fatto costituisca più grave reato, in caso di ri= fiuto dell’accertamento di cui ai commi 3, 4 o 5 dell’articolo 186, il conducente è punito con le pene previste dal comma 2, lettera c), del medesimo articolo, aumentate da un terzo alla metà. La con= danna per il reato di cui al periodo precedente comporta la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo da sei mesi a due anni e della confisca del veicolo con le stesse modalità e procedure previste dal citato articolo 186, comma 2, lettera c), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea al reato. Se il veicolo appartiene a persona estranea al reato, la durata della sospensione della patente di guida è raddoppiata.”.
A tal proposito, il Giudice del Tribunale di Urbino, con la sentenza n. 107 del 02 ottobre 2015, ri= chiamandosi al recente orientamento della Corte di Cassazione, Sezione IV, cui alla sentenza n. 15184 del 24 marzo 2015, ha statuito che: “al reato di rifiuto di sottoporsi all’accertamento per la verifica dello stato di ebbrezza disciplinato dal comma 7 dell’art. 186 C.d.S. non si applica la pre= visione di cui all’art. 186 comma 2 lett. c) nella parte in cui dispone che la durata della sospensio= ne della patente di guida è raddoppiata allorquando il veicolo condotto dall’imputato appartenga a persona estranea al reato”, per cui ha dichiarato il conducente colpevole del reato contestato, con= dannandolo alla pena di mesi 5 e giorni 10 di arresto ed € 1.400,00 di ammenda, sostituita con il lavoro di pubblica utilità per la durata di giorni 165, nonché alla sanzione accessoria della sospen= sione della patente di guida per la durata di anni 1.
La ratio della norma sopra citata, nella parte in cui prevede il raddoppio del periodo di sospensione di patente allorquando il conducente guidi un’autovettura di proprietà altrui, appare chiara in quanto, il legislatore, ha voluto reprimere in maniera più severa il comportamento di chi si mette alla guida di una vettura non di sua proprietà e per la quale non è possibile operare il sequestro amministrativo ai fini della confisca.
Con la sopracitata sentenza la Suprema Corte di Cassazione ha così enunciato il seguente principio di diritto: “il rinvio alle stesse modalità e procedure previste dal comma 2, lett. C), salvo che il veicolo appartenga a persona estranea alla violazione, contenuto nel secondo periodo del comma 7 dell’art. 186 C.d.S. dopo le previsioni relative alla sospensione della patente di guida ed alla con= fisca del veicolo, deve intendersi limitato alle sole modalità e procedure, contenute nell’art. 186, comma 2, lett. c) C.d.S. che regolano il sistema della confisca del veicolo, con esclusione del rinvio alla disciplina del raddoppio della durata della sospensione della patente di guida, qualora il vei= colo appartenga a persona estranea al reato, quale sanzione amministrativa che accede al reato di rifiuto, compresa, ai sensi dell’art. 186, comma 7, 2° periodo tra il minimo di 6 mesi ed il massimo di 2 anni, non deve essere raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartenga a persona estranea al reato”.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Revisione della patente di guida
Il dubbio che il guidatore non sia più in possesso dei requisiti per la guida dei veicoli trova richiamo nell’art.128 del C.d.S.
Tale norma stabilisce che “Gli uffici competenti del Dipartimento per i trasporti terrestri, nonchè il prefetto nei casi previsti dagli articoli 186 e 187, possono disporre che siano sottoposti a visita medica presso la commissione medica locale di cui all’art. 119, comma 4, o ad esame di idoneità i titolari di patente di guida qualora sorgano dubbi sulla persistenza nei medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti o dell’idoneità tecnica”(comma 1).
In particolare, per quanto concerne le conseguenze di un sinistro, il comma 1-ter così dispone: “E’ sempre disposta la revisione della patente di guida di cui al comma 1 quando il conducente sia stato coinvolto in un incidente stradale se ha determinato lesioni gravi alle persone e a suo carico sia stata contestata la violazione di una delle disposizioni del presente codice da cui consegue l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida”.
Il provvedimento che impone la revisione della patente di guida a carico del conducente, pur se responsabile di un sinistro stradale, non è, però, sufficientemente motivato qualora faccia riferi= mento al solo fatto dell’incidente, senza richiamare ed esplicitare altre diverse circostanze.
Infatti, pur laddove sussista responsabilità del guidatore per la violazione commessa, tale circos= tanza non può giustificare, da sola, la necessità finalizzata alla sottoposizione alla revisione della patente, dovendosi, invero, fornire adeguato supporto motivazionale, così da comprendersi compiutamente le ragioni sottese all’asserito deficit di capacità tecnica in capo al conducente del veicolo.
Significa la giurisprudenza al riguardo che “l’adozione di detta misura richiede in ogni caso una motivazione, ancorché stringata, sulle circostanze che inducano a revocare in dubbio l’idoneità psico-fisica o la capacità tecnica relativa alla guida dei veicoli (v. Cons. Stato, Sez. IV, 28 agosto 2013 n. 4300), giacché il mero accadimento del sinistro, ancorché in presenza di feriti, non può essere considerato un presupposto di per sé sufficiente a giustificare un ragionevole dubbio circa la permanenza dei necessari requisiti di idoneità, ove tale conclusione non sia sorretta da un’ade= guata motivazione, fondata su elementi oggettivi e definitivamente accertati che caratterizzano, distinguendola, la singola fattispecie (v., ex multis, TAR Piemonte, Sez. I, 5 maggio 2014 n. 759).
La revisione della patente di guida di cui all’art. 128, comma 1 del Codice della Strada, sulla scorta di quanto affermato da numerosi precedenti giurisprudenziali, si caratterizza “non come una san= zione amministrativa, bensì come provvedimento non sanzionatorio, funzionale alla garanzia della sicurezza della circolazione stradale e, dunque, come misura cautelare volta a sottoporre il titolare della patente di guida ad una verifica della persistenza della sua idoneità psico-fisica e di quella tecnica alla guida, entrambe richieste non soltanto per l’acquisizione, ma anche per la conserva= zione del titolo (v., tra le altre, Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza n. 1669 del 18 marzo 2011).
Ed infatti, dal provvedimento con il quale viene prescritta la revisione della patente di guida devono emergere le ragioni su cui poggiano gli asseriti “dubbi”.
Più precisamente, la giurisprudenza ritiene che non una qualsiasi violazione al codice della strada possa dar luogo a revisione della patente, ma occorre che vi siano o profili di obiettiva gravità della (anche singola) condotta, avendo riguardo ai contesti di tempo e di luogo, o reiterate violazioni (v. T.A.R. Trento, sent. n. 10 del 14/01/2015), per cui un qualunque incidente avvenuto, pur in presen= za di feriti o contusi, di per sé non integra il ragionevole dubbio sulla persistenza dell’idoneità psi= cofisica, se tale deduzione non è sorretta da un’idonea motivazione fondata su elementi oggettivi e definitivamente accertati (ex plurimis T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 16.10.2014, n. 2478,; ma anche T.A.R. Piemonte, 5.5.2014, n. 759; T.A.R. Marche, sez. I, 25.2.2014, n. 277; T.A.R. Sarde= gna, sez. I, 7.2.2013, n. 107; T.A.R. Toscana, sez. II, 2.3.2011, n. 392; T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, sez. I, 28.3.2011, n. 284).
Di conseguenza, “è illegittimo il provvedimento con cui l’Amministrazione si limita a fare menzione dell’infrazione contestata, la cui natura, peraltro, in assenza di un supporto motivazionale minimo, non appare di per sé sola in grado di giustificare i dubbi circa la persistenza dell’idoneità tecnica . Il mero fatto inerente l’accadimento del sinistro non possa essere considerato un presupposto suf= ficiente ex se a giustificare un ragionevole dubbio in ordine alla permanenza dei necessari requisiti di idoneità, ove tale conclusione non sia sorretta da un’idonea motivazione, fondata su elementi soggettivi e definitivamente accertati che caratterizzino (distinguendola) la singola fattispecie (ex plurimis T.A.R. Toscana ,Sez. II, sent. n. 208 del 03.02.2015; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II 29 ottobre 2013 n. 988; .A.R. Puglia Lecce, sez. I, 9 settembre 2013 n. 1848; T.A.R. Marche 11 luglio 2013 n. 566; .A.R. Toscana sez. II, 2 marzo 2011).
In definitiva, si può affermare che il fatto di aver causato un sinistro, anche con conseguenze di un certo rilievo, può, al massimo, comportare ad indizio della perdita dei requisiti di perizia nella guida ma, salve ulteriori motivazione, ma non può dare, per sé solo, la certezza che tale perdita possa essersi verificata.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Guida in stato di ebbrezza alcolica – di sostanze stupefacenti e/o pscicotrope
Lavoro di pubblica utilità
Con le ultime modifiche apportate al Codice della Strada, il legislatore ha previsto, nel caso di ac= certamento delle violazione per guida in stato di ebbrezza alcolica (art. 186, comma 2, del C.d.S.), e/o per guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, ex art. 187 C.d.S., la possibilità per il trasgressore di potere usufruire del “lavoro di pubblica utilità“, che ha lo scopo principale di recupero del trasgressore della violazione alla normale vita sociale, riconoscendogli, in via secon= daria, delle agevolazione alla pena stabilita al riguardo dal Giudice.
Prevede, infatti, l’art. 186, comma 9-bis del Codice della Strada, a cui si conforma anche l’art. 187, comma 8bis, C.d.S.: Al di fuori dei casi previsti dal comma 2-bis del presente articolo, la pena de= tentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell’imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste e consistente nella prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere, in via prioritaria, nel campo della sicurezza e dell’educazione stradale presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, o presso i centri specializzati di lotta alle dipendenze. Con il decreto penale o con la sentenza il giudice incarica l’ufficio locale di esecuzione penale ovvero gli organi di cui all’articolo 59 del decreto legisla= tivo n. 274 del 2000 di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. In de= roga a quanto previsto dall’articolo 54 del decreto legislativo n. 274 del 2000, il lavoro di pubbli= ca utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata e della con= versione della pena pecuniaria ragguagliando 250 euro ad un giorno di lavoro di pubblica utili= tà. In caso di svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità, il giudice fissa una nuova udi= enza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospen= sione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato. La decisione è ricorribile in cassazione. Il ricorso non sospende l’esecuzione a meno che il giudice che ha emesso la deci= sione disponga diversamente. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, il giudice che procede o il giudice dell’esecuzione, a richiesta del pub= blico ministero o di ufficio, con le formalità di cui all’articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto conto dei motivi, della entità e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena sostitutiva con ripristino di quella sostituita e della sanzione amministrativa della sospen= sione della patente e della confisca. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di una volta.
Nell’applicazione della sopra normativa, succede, talvolta, che il Giudice, il quale deve individuare il luogo in cui il “lavoro di pubblica utilità” deve essere svolto, provveda a stabilirlo “fuori dell’am= bito della Provincia in cui il condannato risiede”, ma una tale circostanza, oltre essere “irragionevo= le”, risulta essere anche in palese violazione della norma che la riguarda, e cioè dell’art. 54 del D.lgs. 274/2000.
Ed infatti, l’art. 54 del D.lgs. 274/2000, nel regolare il lavoro di pubblica utilità, stabilisce, al terzo comma, che: “l’attività viene svolta nell’ambito della Provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato“.
Preme quindi sottolineare che, “l’istituto del lavoro di pubblica utilità”, previsto nei casi di violazione tanto dell’art. 186 (guida in stato di ebbrezza alcolica), quanto dell’art. 187 (guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e/o psicotrope), del C.d.S., non è una mera facoltà che può o non può concedere il Giudice, incaricato del caso, bensì espresso obbligo di legge.
Ed infatti, tale fattispecie è sempre e comunque riconosciuta – dovuta al trasgressore di queste violazioni, ad eccezione che sia il trasgressore stesso a rifiutarla.
In tale contesto, pertanto, il Giudice deve ammettere l’imputato della violazione, ex art. 186 e/o 187 del C.d.S., a svolgere il lavoro di pubblica utilità “per un tempo non superiore alle sei ore settimanali”, ferma, altresì, la facoltà di poter svolgere le sei ore in un’unica giornata lavorativa nell’arco della settimana.
Tale disposizione normativa consente al Giudice di disporre di una certa flessibilità nello stabilire “modi e tempi dello svolgimento della pena”, in modo da non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del trasgressore della violazione.
Il luogo di svolgimento del lavoro di pubblica utilità, può essere decisa dal condannato e, laddove ciò non avvenga, va individuato a cura del Giudice, con il solo vincolo che, detto luogo, si trovi nell’ambito della Provincia in cui il condannato risiede.
Ed infatti, la normativa prevede che “l’attività lavorativa deve essere svolta con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato, tali esigenze – costituenti situazioni giuridiche costituzionalmente tutelate – ben possono essere pregiudicate da circostanze (preesistenti o sopravvenute) che le rendano non compatibili, o non più compatibili, col precetto che l’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato“.
La normativa, di cui qui si parla, assolve alle previsioni, peraltro, dell’art. 3, nonché dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, volte a statuire che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato“, poiché “la funzione rieducativa della pena e la risocializzazione del condannato devono avvenire sulla base di criteri individualizzabili e non su rigidi automatismi“.
La finalità rieducativa della pena (stabilita dall’art. 27, terzo comma, Cost.), deve, pertanto, riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria.
Quest’ultima deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l’emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, devono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della riedu= cazione.
Tali principi, quindi, ben si adattano tanto alla “guida in stato di ebbrezza alcolica” (ex art. 186 del C.d.S.) quanto alla guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e/o psicotrope (ex art. 187 C.d.S.), nella quale la finalità rieducativa della pena, e il recupero sociale del soggetto, risulta essere particolarmente accentuata e perseguita mediante la volontaria prestazione di attività non retribuita a favore della collettività.
Dott. Alessandro Taddia Consigliere Nazionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Il Fondo di Garanzia Vittime della Strada
Il sistema legislativo italiano prevede l’obbligo per ogni veicolo circolante, sia esso autoveicolo, motociclo o natante, di essere munito di una copertura assicurativa affinché, in caso di incidente, il danneggiato possa essere giustamente risarcito dei danni subiti.
Il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, istituito nel 1969 con la legge numero 990, ha il compito di garantire il giusto risarcimento ai danneggiati in caso di incidente con veicolo non identificato (si pensi al caso in cui dopo il sinistro controparte riesca a fuggire senza consentire al danneggiato di annotare gli estremi della targa), oppure veicolo non coperto da assicurazione o ancora veicolo assicurato da Compagnia che al momento del sinistro si trova in stato di liquidazione coatta.
Il Fondo di Garanzia Vittime della Strada, Rappresentato dalla Consap G.V.S, Ente alle dipendenze della P.C.M, opera su tutto il territorio nazionale mediante la designazione delle Compagnie assicurative che, a seconda della regione nella quale è avvenuto il sinistro, gestiscono la procedura come se il veicolo responsabile del sinistro (sia esso non identificato, non assicurato o assicurato da una Compagnia in liquidazione) fosse assicurato presso di loro.
La richiesta di risarcimento deve essere quindi inviata, tanto alla Consap G.V.S. , quanto alla Com= pagnia Assicuratrice designata in relazione al luogo dove è avvenuto il sinistro.
Quest’ultima procederà a risarcire i soli danni alla persona nel caso di veicolo non identificato (con il solo limite del risarcimento danni a cose nel caso di lesioni gravi ma a condizione che il danneg= giato sia anche proprietario del mezzo), mentre negli ulteriori casi residui provvede a risarcire sia i danni a cose che persona (veicoli e/o natanti non assicurati, casi in cui le imprese assicuratrici vengano poste in liquidazione coatta amministrativa, per danni cagionati da veicoli posti contro la volontà del proprietario, oltre che in due ulteriori casi marginali).
La Compagnia Assicuratrice designata, ricevuta la richiesta di risarcimento danni, verifica in primis che sussistano i presupposti per il suo intervento e, appurato che la domanda rientri tra la sua com= petenza, entro 60 giorni formula al danneggiato un’offerta di risarcimento o comunica a questo i motivi per i quali ritiene di non poter formulare nessuna offerta (si pensi al caso in cui la Compa= gnia ritenga che il sinistro non sia mai avvenuto).
La Compagnia designata, una volta liquidato il danno, procede ad identificare il danneggiante, ove possibile, ed a pretendere da quest’ultimo il rimborso di quanto pagato al danneggiato esercitando la c.d. azione di rivalsa.
Unico neo della presente procedura che le liquidazioni sono molto lente e comunque ricomprese entro massimali più bassi rispetto a quelli previsti dalla legge per le compagnie ordinarie.
Avv. Angelo Pisarro Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura
Dott.ssa Carola Maglie Consigliere Regionale Dipartimento Giuridico Cisl Cultura